L’«Otello» secondo Oleg Caetani, e la bacchetta si fa onore

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Anche Otello, originariamente destinato alla bacchetta di Muti, viene recuperato in extremis. Conserva il magnifico allestimento Frigerio-Squarciapino, l’insinuante regia di Graham Vick, il cast vocale. Ovviamente cambia il direttore. Il franco-russo Oleg Caetani, con la massima naturalezza, sale sul podio di quello che è considerato il massimo interprete verdiano.
L’ospite, che dichiara di voler esaltare tutto il Verdi presente in quel capolavoro della maturità, se la cava con onore. Certo, non è Muti. Ma i confronti sarebbero ingenerosi e fuori luogo. Qui e ora si tratta di costruire sulle rovine ancora fumanti di un teatro che ha perso le più importanti figure di riferimento. Proibito sparare. Specie se, come nel caso, il maestro propone una conduzione forte, tornita, lacerata. Forse priva di sfumature a favore di un dettato espressionista e d’impatto, ma comunque solida e sicura.
D’altra parte l’orchestra conserva la memoria di una certa concertazione; il coro, almeno lui sempre diretto da Bruno Casoni, resta al suo massimo livello, il cast vocale si rivela nel complesso tra i più convincenti. Leo Nucci, insinuante, onnipresente, calato con arte sottile nel personaggio di Jago, si fa perdonare la vocalità affaticata. Clifton Forbis, l’Otello della trasferta giapponese, ha una voce bella, possente, intonata e generosa. E anche se la resa è un po’ discontinua il suo Otello pare eccellente anche per l’intensa teatralità (e poi, guardiamoci attorno, c’è di meglio?). Daniela Dessì, Desdemona, è il massimo che si possa desiderare. Francesco Meli, Cassio, una vera rivelazione. L’opera, aperta dal grido selvaggio degli elementi e degli uomini, serrata nella struttura possente e claustrofobica del cilindro nero e rame che si spezza e ricompone, diventa un giardino stagliato su oro di Bisanzio e spazio nudo per angosce e delitti, è controllata con autorevolezza dal giovane direttore. Merita molti applausi, anche a scena aperta.
Dagli Arcimboldi alla Sala Verdi. Eccoci a un appuntamento con la Cantelli. Dove è annunciato anche Paolo Restani, un pianista di bellissime qualità. Ma ci era sfuggita la cronaca. Il concerto non c’è più. Al suo posto, pianista ospite presente, un incontro orchestra-pubblico. Tra un lamento e l’altro, si capisce solo che la maledizione delle orchestre cittadine ha colpito ancora. Anche la Cantelli, un tempo guidata da Veronesi e ora da Daniel Pacitti, versa in difficoltà. Anzi a quel che si sente sarebbe morta. Tanto che lo stesso Pacitti è appena stato nominato direttore artistico al Verdi di Trieste.
Restani si inserisce tra le contestazioni. Siede surreale al piano come in un film di Fellini. Cerca, a tratti trovandoli, i suoi Rachmaninov, Chopin, Liszt. Dove va la Cantelli? Ancora Sala Verdi e Società del Quartetto. Che, Dio la benedica, chiude una stagione stimolante e senza scosse. Sui leggii un tutto Schubert. Ospiti il Wienerkammerensemble, alcune prime parti dei Wiener Philharmoniker, e il pianista francese Michel Dalberto. Accostati nel Quintetto op.114, D667 La Trota.

Gli archi parlano fitti tra loro, e quando sono all’unisono sussurrano legati e fluenti come nella tradizione della Filarmonica che li ha generati. Il pianismo di Dalberto è invece incisivo, lucido, vibrante, crudo. Per un far musica che affronta con effetto chiaroscurale due modi di intenderla totalmente diversi.

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