Carlo Lottieri
Tanto a livello teorico come nella pratica politica, il secolo scorso aveva visto imporsi la convinzione che il debito pubblico potesse essere un modo razionale di affrontare le difficoltà congiunturali e difendere loccupazione. Soprattutto grazie allenorme influenza intellettuale esercitata da John Maynard Keynes, molti governi hanno così privilegiato su ogni cosa la necessità di finanziare le uscite, anche sacrificando quel pareggio di bilancio che, in precedenza, era stato considerato tanto importante. Ora il clima è mutato. Come è emerso anche in un recente convegno organizzato a Ginevra dallInstitut de recherches économiques et fiscales, il debito pubblico è sempre più sul banco degli imputati. Vi è, insomma, un crescente accordo in merito al fatto che non vi sarebbe alcuna «virtù» del debito. Daltro canto, propugnare politiche di spesa sulla base della tesi che «nel lungo periodo siamo tutti morti», finisce per lasciare alle nuove generazioni una situazione finanziaria dissestata. Noi stessi, per giunta, siamo nel «lungo periodo» di chi ci ha preceduto. È anche da tenere presente che il debito tende per lo più a coprire le spese di governi incapaci di limitare le uscite: quando si esaminano i bilanci degli Stati a più alto indebitamento si constata che oltre un certo livello essi sindebitano solo per pagare gli interessi, in un circolo vizioso distruttivo. Moltiplicare Bot e Cct, inoltre, comprime leconomia privata: condiziona i mercati finanziari, altera il costo del denaro, orienta il risparmio verso impieghi non produttivi e, in tal modo, causa disoccupazione. Gli effetti distorsivi provocati dal debito tolgono risorse allinnovazione e, come evidenzia leconomista anglo-svizzera Victoria Curzon-Price, in tale quadro è comprensibile che vi siano persone che adottano un atteggiamento che porta a indebitarsi o a ridurre la disponibilità a lavorare: e tutto ciò per contrastare leventuale inflazione con cui spesso si decide di risolvere il problema del debito.
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