Cultura e Spettacoli

L’ultima «arma» nelle mani di Hitler

Ministri, generali, principi, il figlio di Stalin, i parenti di Churchill...: sono gli ostaggi eccellenti razziati da Gestapo e SS e rinchiusi nella «Alpenfestung»

da Villabassa (Bolzano)
A poche settimane dalla resa delle forze nazifasciste, il 14 aprile 1945, nella residenza di Mussolini, presso Villa Feltrinelli a Gargnano, si svolse una riunione tra i rappresentanti tedeschi e i massimi dirigenti di Salò. Fu in questa occasione che il segretario del partito, Alessandro Pavolini parlò del Ridotto Alpino Repubblicano, oggi più noto come ridotto della Valtellina: il luogo dove si sarebbe dovuta organizzare la difesa finale della Rsi e celebrare il rito della «bella morte» dell’ultimo fascismo. L’esposizione di Pavolini fu accolta con ironico disinteresse dai tedeschi, consapevoli della velleità di quel piano di resistenza, una volta paragonato con quello da tempo messo a punto dalle forze naziste.
Nell’estate del 1944, immediatamente dopo il fallito attentato contro Hitler, Himmler aveva predisposto la costituzione di un’ampia enclave fortificata: l’Alpenfenstung (Fortezza alpina) che si sarebbe dovuta estendere dall’Alta Baviera, alla Marca di Salisburgo, al Tirolo, all’Alto Adige, comprendendo la cinta dolomitica e le Alpi Carniche. All’interno di questo baluardo, le ultime forze del Reich dovevano attestarsi, in attesa di un probabile rovesciamento di fronte che le avrebbe viste schierarsi a fianco delle armate inglesi e americane per respingere la minaccia delle truppe sovietiche ormai sul punto di dilagare anche nell’Europa occidentale. Lasciato cadere dallo stesso Himmler, agli inizi del 1945, il progetto Alpenfenstung veniva invece mantenuto in vita dal responsabile dell’Alto commando di sicurezza del Reich, Ernst Kalterbrunner, deciso a servirsi di una nuova e antichissima «arma segreta»: i numerosi ostaggi eccellenti razziati dalla Gestapo in tutti i Paesi europei investiti dalla furia nazista a partire dal 1940, che potevano essere utilizzati in operazioni di ricatto e di rappresaglia. Delle loro vicende, nella fase finale del conflitto, ci parla il volume di Hans-Günter Richardi Ostaggi delle SS nella Alpenfestung (Editon Raetia) che ha fornito l’occasione per la mostra fotografica, allestita nel Museo del Turismo di Villabassa, in Val Pusteria, con il titolo «Ritorno alla vita», aperta fino al 2 ottobre.
Raggruppati sotto il titolo altisonante di Ehrenhäftlinge («prigionieri d’onore»), gli ostaggi costituivano un vero e proprio Gotha internazionale. Francesi, come gli ex primi ministri Léon Blum, Daladier, Reynaud, il capo di Stato maggiore Maurice Gamelin, il generale Weygand che aveva condotto l’ultima resistenza contro le armate naziste sulla Somme, il principe Saverio di Borbone, fratello dell’imperatrice d’Austria, Zita. Inglesi, come due lontani parenti di Churchill. Russi: il figlio di Stalin, Jakob, e il nipote di Molotov, Wassilij Kokorin, ambedue ufficiali dell’Armata Rossa. Greci: Alexandros Papagos, comandante supremo dell’esercito ellenico, con gran parte del suo stato maggiore. Ungheresi: il figlio del reggente Horty e il primo ministro Kallay. Olandesi e Austriaci, come il ministro della difesa van Dijk e il cancelliere Schuschnig.
Nell’elenco non mancavano anche “prigionieri di riguardo” italiani: Mafalda di Savoia, che perirà a Buchenwald nel corso di un bombardamento; il figlio del maresciallo Badoglio, Mario, Tullio Tamburini e Eugenio Apollonio, responsabili della forze di polizia della Rsi fino all’ottobre del 1944, quando, sospettati di doppiogioco con gli Alleati, furono arrestati su ordine del generale Wolff e deportati in Germania. Infine, Sante Garibaldi, pronipote dell’“Eroe dei due Mondi”, che unitosi alle forze della resistenza francese era stato catturato nel giugno del 1943.
La lista degli ostaggi eminenti non terminava qui. Insieme ad altri dignitari politici e militari danesi, norvegesi, jugoslavi, polacchi, la piovra nazista stringeva nei suoi tentacoli i cosiddetti Sippenhäftlinge, i familiari degli oppositori al regime nazista, coinvolti nell’attentato della “Tana del lupo” contro Hitler: mogli e figli dell’aristocrazia militare prussiana che aveva organizzato il tirannicidio e persino il principe ereditario Rupprecht di Baviera dell’antica dinastia dei Wittelsbach.
Circa 130 Sippenhäftlinge e Ehrenhäftlinge, fino a quel momento imprigionati in condizioni critiche, presso alloggiamenti riservati nei lager di Dachau, Buchenwald, Ravensbrück, venivano deportati verso la Fortezza Alpina, a partire dall’inizio di febbraio del 1945, con la destinazione finale di Innsbruck. Si tratterà di un’anabasi allucinante, in una Germania ormai prossima al collasso finale, sconvolta dai raid alleati e ormai attraversata dalla linea di fuoco di combattimenti. Un’anabasi percorsa sotto la continua minaccia di essere passati per le armi dai loro carcerieri, che conoscerà una provvidenziale deviazione verso l’Alto Adige. I prigionieri, arrivati a Villabassa, il 28 aprile, vengono accuditi e rifocillati dalle autorità locali e poi rapidamente liberati da un piccolo contingente della Wehrmacht che armi alla mano costringe la scorta delle SS a sgombrare il campo. Sia l’intervento delle autorità altoatesine che quello dei militari tedeschi non è disinteressato. I prigionieri speciali rimangono ostaggi importanti per le future trattative con le potenze vincitrici. Gli altoatesini sperano grazie alla loro azione di ottenere il ricongiungimento del loro territorio all’Austria. Il comando tedesco sa che l’eventuale eliminazione dei detenuti da parte delle SS farebbe fallire l’operazione «Sunrise», nome in codice delle trattative che avrebbero portato, il 29 aprile, alla resa delle truppe germaniche in Italia.
La vita dei prigionieri è comunque salva. Questi raggiungono un rifugio sicuro in un hotel dolomitico sulla riva del lago alpino di Braies, sotto la protezione delle truppe tedesche. I pericoli non sono però completamente finiti. Si teme infatti un ultimo colpo di coda delle SS, un assalto da parte di militari sbandati, ma soprattutto l’attacco di reparti di partigiani della Brigata Garibaldi, intenzionati, forse per conto del Pci, a mettere le mani sul prezioso bottino di vite umane.
La vera liberazione avverrà solo il mattino del 4 maggio con l’arrivo del 339° reparto di fanteria della 85ª divisione della Quinta Armata statunitense. Come per molti europei, anche per i Sippenhäftlinge e gli Ehrenhäftlinge il ritorno alla vita coincise con il regno dell’abbondanza. Generi alimentari, sigarette, sapone, vestiario offerti generosamente da umili soldati e graduati americani a coloro che rappresentavano un campione significativo delle élite politiche, diplomatiche, militari della vecchia Europa. Era anche questo un segno emblematico del declino di un continente, che aveva ormai dilapidato le proprie energie nel corso di una lunga e terribile guerra fratricida, alla fine della quale si offuscava il tradizionale discrimine tra vincitori e vinti.


eugeniodirienzo@tiscali.it

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