nostro inviato a Verona
Vini di cinque, due e perfino zero gradi. È lultima frontiera dellenologia, a caccia disperata di nuovi mercati e nuovi consumatori, che fa naturalmente storcere la bocca ai Paesi tradizionalmente produttori del nettare di Bacco, riuniti in questi giorni al Vinitaly, il più importante salone del settore al mondo, in corso a Verona. Anche qui di vino più leggero si parla tanto. Ma un Chianti o un Barbaresco «dealcolizzati» parzialmente o completamente finirebbero per perdere la loro ragione dessere. O quasi.
Già, perché secondo Luigi Moio, ordinario di Enologia alluniversità Federico II di Napoli e produttore a sua volta (la sua azienda campana si chiama Quintodecimo), almeno un pregio il low-wine ce lavrebbe. «Quello - spiega Moio - di fungere da entry level per chi il vino non vuole o non può consumarlo». Con il vino più leggero di una birra, nellepoca in cui la bevanda al luppolo vede accrescere il suo grado alcolico, si potrebbe insomma introdurre giovanissimi che oggi si sballano con i «popcoholics» ai preliminari del vino. Insomma, da una malapianta potrebbe nascere un fiore dal bouquet profumato.
Se non esistessero vincoli legislativi, il «vino zero» potrebbe essere imbottigliato anche domani. A spingere in questa direzione ci sono due lobby: quella dei Paesi nuovi produttori di vino, come Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica, che hanno terreni sconfinati da trasformare in vigne e soprattutto non hanno tutti i lacciuoli legislativi e soprattutto le remore culturali di Francia, Italia, Spagna; e quella dei Paesi consumatori del Nord Europa, che soffrono di un grave problema di alcolismo che coinvolge soprattutto fasce deboli della popolazione come le casalinghe.
Ma cosa ci sarebbe in una bottiglia di vino senza alcol o quasi? «Qualcosa che vino non è di certo - risponde secco Moio -. Se infatti una riduzione fino a due gradi del titolo alcolometrico di un vino tradizionale, ottenibile con pratiche in vigna o in cantina, non modifica significativamente gli aspetti organolettici del vino di partenza, un vino ridotto a 5, 2 o zero gradi sarebbe unaltra cosa. Bisognerebbe infatti sostituire tutte le funzioni svolte dallalcol: quella di stabilizzazione con dei disinfettanti, quella aromatica con aromi ed edulcoranti». Insomma, si partirebbe da un vino vero che dealcolizzato in postproduzione diventerebbe qualcosaltro. Fantascienza? «Niente affatto, semmai lincognita vera è quali problemi potrebbe creare questo vino-non-vino a quello vero. Secondo me in fondo non molti, dal momento che gli intenditori certo non preferirebbero mai un vino senza alcol a quello vero». E i meno esperti? «Per loro bisognerebbe fare una comunicazione mirata e scrivere chiaramente in etichetta quello che stanno per bere».
Certo è che dallaria che tira qui a Verona, alledizione n°45 del Vinitaly, il futuro è dei vini più leggeri. Magari non così leggeri, sempre in doppia cifra, ma certo di gradazione inferiore rispetto alle spremute di alcol che hanno monopolizzato il mercato negli ultimi anni. Colpa della diffusione nei Paesi del Sud di vitigni adatti a latitudini più settentrionali, che piantati in zone più calde fanno esplodere letilometro, come il Merlot e lo Chardonnay in Sicilia; ma anche delle mode, dellequazione struttura uguale qualità, delle guide di settore, che negli ultimi anni hanno regolarmente premiato vini più impegnativi. E quindi giù tutti a spingere su quella percentuale in etichetta. Ma ora cambiano le mode, gli stili di vita, le pratiche enologiche. E un vino a 11°-12° gradi potrebbe davvero essere utile per avvicinare i consumatori al bere quotidiano.
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