L’ultima rivoluzione del Gran Borghese

Non è stata soltanto la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, ma è stata una vittoria rivoluzionaria della democrazia italiana, voluta e quasi forzata con estrema determinazione da Berlusconi: l’Italia, questa macchietta fra le democrazie occidentali dilaniata da decine di partiti e travolta da continue crisi di governo, è ora di fatto una democrazia bipartitica come gli Stati Uniti, come la Gran Bretagna, come la Germania, come la Francia, tutti Paesi in cui vivono anche altri partiti minori oltre ai due contendenti principali, ma in cui è stato impedito il diritto di taglieggio, di ricatto, di sgambetto che da noi tradizionalmente i partiti cosiddetti minori hanno esercitato su entrambe le coalizioni sia di destra che di sinistra azzoppandole, bloccandole, paralizzandole e ricattandole. Questo è ciò che Berlusconi imparò durante il suo governo fra il 2001 e il 2006, quando fu sottoposto alla continua tortura dell’Udc e di altri sporadici attacchi, finché dovette subire l’umiliazione delle dimissioni al Quirinale per ricevere un immediato reincarico, incassato con frustrazione e con sdegno.
Quella fu l’esperienza che fece dire a Berlusconi adesso basta. Io ho partecipato a tutte le lunghe sessioni che si svolsero negli ultimi anni per la formazione di un partito unico del centrodestra. Erano riunioni faticose e impossibili: nessuno aveva voglia di rinunciare alla sua identità e alla fine non si arrivava mai ad una conclusione. A un certo punto disse basta.
Io ho conosciuto Silvio Berlusconi da giornalista. Ero alla Stampa diretta da Paolo Mieli che mi spedì a descrivere quest’uomo che ancora non era sceso in politica. L’intervista doveva durare un’ora e invece ne durò sei. Come è nel personaggio, mi raccontò non soltanto la sua vita, ma la chiave del suo successo, le corse in macchina di notte per portare le cassette del secondo tempo alle piccole emittenti che avevano trasmesso il primo e l’idea geniale di battere la Sipra, concessionaria Rai, offrendo consulenza e cointeressenza agli inserzionisti. Tutti a sinistra mi mettevano in guardia contro questo personaggio flamboyant, amante di se stesso non meno che delle belle donne e delle sue aziende, ma non mi sfuggì allora quel che poi hanno dovuto ammettere tutti: quest’uomo è un italiano diverso, unico, totalmente italiano nei comportamenti personali e tradizionali, totalmente straniero in patria.
Io non ho mai amato Montanelli. Non mi piaceva quando maramaldeggiava da destra e non mi piaceva quando maramaldeggiava da sinistra e lo trovai particolarmente imbarazzante quando si scagliò con livore contro lo stesso Berlusconi che lo invitava alla sua tavola ogni settimana e che gli pagava i conti a piè di lista. Ma ciò che mi dispiacque di Montanelli fu la supponenza con cui annunciò che sarebbe stato bene che gli italiani assaggiassero Berlusconi in modo che poi lo avrebbero rifiutato come si rifiuta un cibo immangiabile.
È accaduto esattamente il contrario: il voto di domenica e di ieri dimostra che gli italiani hanno assaggiato Berlusconi, lo hanno seguito in un cammino evolutivo della democrazia italiana e, dopo aver assaggiato per la seconda volta Prodi, hanno detto no grazie. Ho trovato in aereo tornando da Parigi un numero di Le Monde, giornale spocchiosissimo nei suoi editoriali quanto e talvolta più del britannico Economist, il quale però dedicava una paginata rispettosissima a “Berlusconi l’immortale” in cui fra gli altri registrava un onesto giudizio di Massimo D’Alema il quale diceva che Berlusconi è un prodotto della società italiana, non è un mostro, non è un alieno come invece all’estero è stato fatto credere dalla stessa sinistra italiana che ora fa marcia indietro.
Ieri l’Italia ha celebrato un miracolo. A Roma, a Milano, nelle grandi e piccole città c’era aria da campionati di calcio, aria di vittoria, di trombe, di felicità. La gente era felice perché la cupa, triste, terribile, infausta stagione della sinistra prodiana è morta e sepolta per sempre. Ma non era questo il punto più importante. Certo, la gente è felice perché Berlusconi torna a Palazzo Chigi, sia pure promettendo lacrime e sangue come fece Winston Churchill, perché la sfida è terribile in una crisi economica mondiale soffocante. Ma non è soltanto questo, non è principalmente questo. Quando nei libri di storia si racconterà di questa sera, di questi giorni, certamente verrà sottolineata un’altra e maggiore vittoria: la nascita di una democrazia parlamentare moderna, la nascita non del bipolarismo, che è finito, ma del bipartitismo, la fine dei piccoli club di ricattatori politici i quali hanno ora da leccare le ferite del loro orgoglio e pensare che cosa potrebbero finalmente fare di buono per questo Paese. Ma la vera grande vittoria è quella di aver cambiato la faccia e il corpo della politica italiana.
Sono venuti ora a casa mia quelli della Bbc per chiedermi che cosa cambia ora in Italia: cambia, ho risposto, l’immagine politica del Paese. Il Paese-barzelletta dei mille partiti e dei mille governi è morto grazie a Berlusconi che è il politico dell’antipolitica, l’uomo che non rinuncia a pronunciare apparenti gaffes, o battute al vetriolo o laceranti, perché sa come comunicare e come rubare la scena, ma che prima di tutto ha odiato il sistema dei partiti dominato dal gioco delle interdizioni e delle tangenti morali, prima ancora che di denaro. Berlusconi è l’uomo che fa parlare di sé anche a sproposito, che se ne infischia delle buone maniere imposte dai salotti buoni e che ha creato il suo proprio salotto molto borghese, ha il gusto provocatorio e leale di essere borghese, di rappresentare la borghesia, di rappresentare – lui cattolicissimo – un’Italia calvinista che non c’è, fatta di lavoro, di profitti frutto del buon lavoro, di diffidenza per i politici di professione, di diffidenza per i poteri paludati, in ermellino, i poteri intimidatori di chi ti dice come devi portare i calzini e la cravatta. Berlusconi è un rivoluzionario anche se si presenta come un moderato e anche se ogni tanto si scorda di dover dare una risposta rivoluzionaria borghese a un Paese che non ha avuto la sua rivoluzione borghese, come l’ha avuta la Gran Bretagna nel 1688, come l’ha avuta l’America con la sua guerra di indipendenza con cui fondò la prima democrazia repubblicana del mondo e come poi l’ha avuta la Francia con la prima parte, appunto quella borghese, della sua rivoluzione poi degenerata nel terrorismo di massa che si è prolungato fino a Hitler e Stalin, fino a Pol Pot, fino ai fasti della Cina in Tibet.
Berlusconi è il politico che usa il suo corpo come strumento di comunicazione e lo cura e lo aggiusta come crede sia doveroso fare per apparire, perché l’apparire è importante quanto l’essere e spesso chi non sa apparire non sa neppure essere.
Ricordo il giro d’Italia con lui sulla nave Azzurra, dove c’era anche la sua adorata mamma che mi dette una lunghissima intervista sulla vita dei suoi ragazzi che lei trattava alla pari, che criticava, amava, consigliava. E ricordo questo Silvio Berlusconi estremamente protettivo ma anche leggermente impaurito da questa sua “mammetta” che rappresentava la continuità con un mondo scomparso, milanese, di cinghia stretta, tutto sommato felice ma ancora appartenente a un’epoca in bianco e nero, decorato anche dalle foto canoniche del giovane Silvio che fa cabaret, che canta sulle navi, che si traveste con cappellacci e fa lo chansonnier. E lì realizzai che Berlusconi incarna le due maschere dell’italiano: l’Arcitaliano e l’Antitaliano, l’uomo profondamente legato a tradizioni, modi di fare, amore per la propria terra, e quello che vorrebbe buttare tutto all’aria e rifarlo da capo. E poi lo ricordo disarmato e inerme di fronte alla violenza di Genova quando, appena diventato primo ministro, andava decorando con le piante di limoni una Genova tirata a lucido per ospitare il G8.
E quel che successe subito dopo fu immediatamente l’apocalisse: violenze, provocazioni sanguinose, pestaggi incivili, il manifestante morto e il suo coetaneo che ha ucciso per non essere ucciso, e Berlusconi che pensava al decoro, al suo ottimismo di costruttore, di regista, ancora lontano dal capire alcuni dei meccanismi più perversi di questo Paese. Ora, ne sono sicuro, li ha capiti. Forse pensa davvero che le storie del Kgb in Italia appartengono a un mondo antico e ormai morto della guerra fredda, ma nel complesso ha capito tutto della collocazione dell’Italia e della sua gente, anche ciò che è difficile da mandare giù, come la crisi dell’immondizia di Napoli, che è una crisi politica, una crisi di immagine, di costume, di onore leso.
Come spiego a quelli della Bbc, Berlusconi sta mantenendo un “low profile”, senza enfasi. Ma la cosa più importante è che non soltanto abbia vinto lui, ma che con lui abbia vinto una nuova Italia, con un nuovo sistema politico che il leader di Forza Italia e poi del Pdl ha creato, fatto funzionare e sulla porta del quale ha poi avuto il coraggio di dire: o dentro, o fuori. Chi è rimasto dentro ha vinto, chi è restato fuori ha perso. Ora Bertinotti riconosce la sconfitta non soltanto elettorale, ma politica. Così Casini, per il quale le porte restano aperte.
Ora Veltroni “conceides” la vittoria all’avversario, ma si vede che si sente partner del nuovo sistema creato da Berlusconi e di cui lui è in fondo, anche se sconfitto, un beneficiario, perché può dedicarsi a creare il partito della sinistra democratica che all’Italia manca e che richiede un grande lavoro, un grande ripensamento radicale. Tutti oggi riconoscono che tutto è cambiato. È come se l’Italia avesse avuto, in positivo, il suo 11 Settembre, non una catastrofe ma un evento scioccante dopo il quale ognuno possa dire che nulla sarà più come prima, che tutto deve cambiare e deve cambiare in meglio. Questo è il grande capolavoro di quest’uomo che dipingeva freneticamente gli appartamenti che costruiva, correndo a vestirsi da imprenditore quando arrivavano i clienti con le mani ancora sporche di vernice. È un campione del fare e ha rifatto il sistema politico italiano.

Quanto a risolvere tutti i problemi di una crisi mondiale e nazionale, giustamente, come direbbe ogni persona di buon senso, ci vorrebbe la bacchetta magica. Ma prima si comincia e poi, come diceva Napoleone, si vede. L’importante è cominciare una nuova vita e la vita della democrazia italiana da ieri è nuova.

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