L’ultima sparata di Battisti: voglio l’amnistia

Rio gli sta stretta. Per forza: un intellettuale ha orizzonti illimitati. Figurarsi se Cesare Battisti può rimanere confinato in Brasile. Ora, ci fa sapere attraverso Le Monde, vorrebbe tornare a Parigi. «È lì -spiega al quotidiano francese - che sono veramente cresciuto intellettualmente, è lì che mi sono formato». L’Italia è solo una fastidiosa appendice, un ricordo che l’ex terrorista rosso cerca di mettere a posto, come si regola un orologio o un congegno meccanico. E la soluzione prospettata dall’uomo condannato due volte all’ergastolo per quattro omicidi è semplice e sfacciata: «Vorrei una riconciliazione con il popolo italiano. Serve un’amnistia, altri Paesi ci sono riusciti». La spugna su quel che è successo e tanti saluti.
Battisti continua a trattare l’Italia come una striscia di fumetti. Lui che è in fuga da una vita, lui che non ha scontato la pena, lui che non ha ammesso i fatti a cui è inchiodato, ha il coraggio di proporre un patto smemorato al Paese che ha indecorosamente preso in giro dopo aver seminato morte e dolore. Un comportamento che non si sa come definire e spiace davvero che il Brasile, al termine di un’estenuante e un po’ carnevalesca altalena di provvedimenti giudiziari e politici, abbia alla fine deciso di restituirgli la libertà. Il passato può andare in archivio quando le ferite si sono chiuse o, almeno, chi ha sbagliato ha chinato il capo e si è cosparso di cenere. È il percorso di alcuni ex, ma Battisti ha fatto di tutto, ma proprio di tutto, per falsificare la sua avventura criminale: pochi mesi in quella scheggia impazzita dell’eversione chiamata Proletari armati per il comunismo. Un pugno di esaltati, autori di quattro atroci omicidi: il 6 giugno 1978 fu ucciso a Udine il comandante delle guardie penitenziarie Antonio Santoro; il 16 febbraio 1979 furono abbattuti in simultanea, fra Milano e il Veneto, l’orefice Pierluigi Torregiani e il macellaio Lino Sabbadin; infine ad aprile ’79 alla Barona, periferia del capoluogo lombardo, fu ammazzato l’agente della Digos Andrea Campagna. Battisti era nel commando che eliminò Santoro e pure in quello che tese l’agguato a Sabbadin; non solo, fu lui a coprire l’assassino di Campagna alla Barona. Le prove raccolte contro di lui, a dispetto delle incredibili campagne di stampa condotte con sciagurata superficialità dalla gauche francese, sono schiaccianti: basta leggere il documentato e pacato «Il caso Battisti» di Giuliano Turone per farsene un’idea. Ma lui, imperterrito, va avanti per la sua strada lastricata di menzogne: «Mi assumo le mie responsabilità politiche e militari, ma non ho ucciso nessuno, ero solo una ruota del carro». Tutto falso, come la versione che Battisti cerca di accreditare: quella di essere stato venduto alla giustizia dalle accuse «di un solo e unico pentito, Piero Mutti». Non è così, a puntare il dito contro di lui c’erano anche Arrigo Cavallina e Sante Fatone, più una montagna di elementi.
A lui, allo scrittore che sta per pubblicare un nuovo libro, il primo dopo l’uscita dal carcere, questo non interessa. Non c’è tempo per indugiare su quella terribile stagione, bastano due righe per mettere a posto la coscienza: «Pretendere di cambiare la società con le armi è una cavolata. Ma in fondo, all’epoca dei fatti tutti avevano delle pistole.

C’erano guerriglieri nel mondo intero. L’Italia viveva in una situazione prerivoluzionaria». «L’Italia - gli risponde secco Alberto Torregiani, figlio di Pierluigi - vuole solo giustizia, vuole che Battisti sconti la sua pena».

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