MilanoLa grazia no, Salvatore Riina non ha davvero in mente di chiederla (anche se voci in questo senso erano circolate nei mesi scorsi). Ma laria condizionata, quella sì: il Capo dei Capi, chiuso da anni nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, ha caldo. Troppo caldo. Siccome è vecchio - ottantanni a novembre - e malato, ritiene che un po di fresco in cella faccia parte dei suoi diritti. Lo chiede, sommessamente, ai giudici di Milano che lo stanno processando per un delitto di quasi ventanni fa.
E, visto che cè, fa sapere attraverso il suo legale storico, Luca Cianferoni, il suo punto di vista su tutta questa storia inestricabile della trattativa presunta fra Stato e Cosa Nostra, di cui tanto si parla in libri e giornali: io, dice zu Totò, di quella trattativa sono stato una vittima.
La faccia inconfondibile del boss di Corleone appare alle 10.20 di ieri nellaula della Corte dassise di Milano, negli schermi di due televisori. Riina è in carcere a pochi chilometri di distanza, nel penitenziario di Opera, ma da lì non può uscire per nessun motivo. Quindi al processo a suo carico partecipa in videoconferenza. Sta seduto su una seggiolina, accanto a un agente. Una giacca verde. Invecchiato, segnato: e daltronde chi ha potuto entrarvi racconta che il reparto 41bis di Opera non è un albergo a quattro stelle. Ma il Padrino non appare piegato. Assiste composto alle formalità di apertura del processo. Poi, vistosamente, inizia ad annoiarsi Chiacchiera con la guardia. Si distrae. Prende la parola solo per annunciare che rinuncia ad uno dei suoi difensori, «mi difende solo lavvocato Cianferoni».
Ed è Cianferoni, in apertura di udienza, a chiedere a nome di Riina la concessione di un condizionatore daria. Non è una trattativa con lo Stato. È solo la concessione che viene chiesta da un uomo in condizioni di salute ormai malferme: «Due infarti - racconta il legale - un Parkinsons che si sta aggravando, e stamattina la pressione era sessanta su centodieci». Ma neanche la malattia ha piegato il boss che conquistò Palermo a raffiche di mitra. Quando la corte si ritira, suona un telefono sui banchi dellaula. È lui, Riina, che dal carcere chiama il suo avvocato. Detenuto e legale parlano fitto. E quando riattacca, è Cianferoni a sintetizzare. Parla del delitto di cui Riina è accusato in questo processo, lammazzamento di uno «stiddaro», membro di un clan dissidente, nel lontano 1992, e di cui Riina giura di non sapere nulla. Ma soprattutto di una sentenza già definitiva, che il pm Marcello Musso ha chiesto di allegare, per un crimine ben più eclatante commesso anchesso a Milano: la condanna allergastolo per la strage di via Palestro, il 27 luglio 1993.
Quel massacro - come quello di via dei Georgofili, a Firenze - viene considerato un pezzo delle trame ancora oscure che segnarono la storia dei rapporti tra Stato e mafia. Quando esplose la bomba al Padiglione darte contemporanea, Riina era già in cella da sei mesi. «Ma se si vuole capire cosa accadde veramente - brontola Cianferoni - bisogna dire che la bomba non era per il Pac, che si sbagliò obiettivo. Che lì vicino cera una loggia massonica, come anche a Firenze, in via Georgofili».
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