Fino agli anni settanta più di millequattrocento macellerie erano distribuite su tutto il territorio di Genova. La sobria eleganza dei marmi pregiati che costituivano la base del loro arredo era un elemento immancabile del paesaggio urbano e solo la loro facile accessibilità faceva perdere di vista il privilegio comune a tutti di disporre d'un servizio di così alta qualità.
Storicamente, la scuola dei macellai genovesi era universalmente conosciuta come una delle migliori d'Italia. Circostanza, questa, assai rilevante se si pensa che la sapiente lavorazione della carne influenza direttamente la tradizione culinaria e di conseguenza educa il gusto ed eleva la qualità della vita. Purtroppo di questo valore ci siamo resi conto troppo tardi: solo quando quest'arte è apparsa avviata verso un inesorabile tramonto è scattato il rimpianto e l'affannosa ricerca delle sue espressioni superstiti, come testimonia la folta schiera di clienti che popolano il negozio di Piero, uno degli ultimi, se non forse l'ultimo maestro macellaio della nostra città. Si tratta di genovesi provenienti da tutti i quartieri della città ma anche abitanti dell'entroterra e delle riviere, milanesi e altri lombardi disposti ad attendere per ore il loro turno nello storico negozio di vico Macelli di Soziglia.
Ma come è stato possibile che un prodotto ancor oggi ricercatissimo stia quasi per scomparire dal mercato assieme ad un mestiere che dava di che vivere nell'abbondanza a un migliaio di famiglie? Questa non è una domanda retorica dettata dalla nostalgia, ma il quesito molto pratico che dovrebbe costituire il punto di partenza per un pubblico amministratore intenzionato ad agire per il bene comune sul fronte diretto dell'occupazione e su quello accessorio, ma non trascurabile, della migliore vivibilità dei quartieri, che acquistano in sicurezza e gradevolezza proprio grazie alla presenza delle luci e dei colori di tante vetrine dall'offerta differenziata e non banale.
Attingere all'esperienza quasi cinquantennale di Piero rappresenta il primo passo per immaginare un possibile percorso di recupero. Con il suo aiuto, cominciamo a richiamare alla memoria il modello virtuoso con cui veniva trasmesso un mestiere certamente difficile. La formazione, allora chiamata apprendistato, prevedeva due pomeriggi di lezioni teoriche nel corso delle quali si studiavano gli elementi di veterinaria utili alla professione assieme alle nozioni indispensabili per gestire un negozio. Ma era solo attraverso la pratica che ci si impossessava del mestiere: il giovane aspirante veniva messo «a bottega», cioè a lavorare in una macelleria di sua scelta dove il titolare-maestro, mentre lo utilizzava, provvedeva ad istruirlo, seguendo passaggi logici dettati dall'esperienza: prima l'igiene e la scrupolosa pulizia con cui doveva essere tenuto il negozio, poi la lavorazione degli stalli meno pregiati con l'acquisizione della manualità necessaria a praticare l«impelleggina», cioè la pulizia completa dell'osso, dopo di che l'apprendista cominciava a stare dietro al banco dove veniva spronato a «rubare» il mestiere osservando le mani del maestro e dove imparava a distinguere gli stalli in rapporto all'uso culinario a cui erano destinati. Era in questo preciso momento che si combinavano due interessi in apparenza contrastanti: quello del macellaio provetto, costretto a perdere tempo prezioso per allevare un potenziale concorrente, e quello d'un giovane disposto a svolgere lavori anche umili pur d'impossessarsi d'un mestiere capace di assicuragli un futuro di benessere. La non conflittualità era assicurata dal buon senso, allora molto più diffuso di oggi, che comportava la generosa disposizione dell'adulto verso l'insegnamento (da cui traeva motivo di gratificazione personale) e dalla necessaria umiltà da parte dell'allievo per sottostare tutto il tempo necessario alla disciplina imposta dal maestro. Anche lo Stato faceva la sua parte in questo delicato momento di formazione, provvedendo esso stesso a versare i contributi che oggi sarebbero invece a totale carico dei macellai, eventualmente disponibili ad assumere un apprendista.
Dalle parole di Piero emerge continuamente l'amore e la fierezza verso l'attività che svolge da così tanto tempo, assieme alla soddisfazione che prova ogni qual volta soddisfa (in pratica, sempre) i suoi clienti, i quali, a loro volta, lo ripagano con continue testimonianze di simpatia; ma, nello stesso tempo, egli è assolutamente scettico riguardo alla possibilità di poter dare una continuità al suo mestiere, poiché non vede nei politici locali né la volontà né la capacità di restaurare un apprendistato degno di tale nome e li ritiene più attenti agli interessi delle scuole di formazione, raramente in grado di fornire sbocchi di lavoro, che a quelli dei giovani in cerca di occupazione. Ed è ugualmente scettico nei confronti dei rappresentanti delle nuove generazioni: tanto restii nella volontà di conquistarsi la libertà che deriva da una vera indipendenza economica, quanto arroganti nel pretendere comodi inserimenti nel pubblico impiego, non importa se poco remunerativi e scarsamente gratificanti.
Ma (forse), anche in questo caso fermare la deriva non è impossibile. Quando finisce per emergere la consapevolezza d'un pericolo incombente - come quello di non trovare tanto facilmente una possibilità d'impiego - anche i giovani, almeno quelli più avveduti, potranno riconquistare la disposizione d'animo necessaria per apprendere mestieri tutt'altro che facili come quello del macellaio. Per favorire questo processo, si ritiene utile, per non dire indispensabile, ristabilire il valore e il prestigio sociale che un tempo aveva questa professione, così come quella di tanti altri artigiani e degli stessi commercianti al minuto.
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