Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, vista la sua simpatica ed autorevole impudenza. Ci riferiamo a Guido Rossi, già senatore della sinistra indipendente, già presidente della Consob ed onnipresente consulente in tutte le operazioni finanziarie più complesse e discutibili. Rossi si è dimesso ieri da presidente della Telecom dopo aver tentato inutilmente di assoldare Mediobanca per una battaglia contro Tronchetti Provera e rientrare così nel consiglio di amministrazione della società. Prima di dimettersi, però, il professor Rossi ha rilasciato una lunga e divertente intervista a Repubblica, il quotidiano che più di tutti si era impegnato in una campagna di stampa contro Telecom e Tronchetti Provera.
Ciò che fa di Guido Rossi un uomo particolare non è tanto la sua riconosciuta bravura, quanto la sua mobilità nelle alleanze vissuta sempre con una visione tolemaica. Le alleanze, cioè, sono buone se gli interessi che tutelano sono quelli di Rossi e dei suoi autorevoli amici. Dice il professore, infatti, che «quando ho cercato di fare pulizia nel conflitto di interesse fra Tronchetti Provera e la Telecom per il bene dell’azienda, del mercato e del Paese, sono entrato in rotta di collisione con lui». E giù a descrivere le qualità dell’azienda Telecom, dei suoi forti investimenti in ricerca e innovazione e del suo bilancio. Bugie meravigliose dette con il tono della sofferenza di chi guarda, per l’appunto, al bene del Paese contro una banda di miscredenti e affaristi. Ricordiamo bene che Rossi ha scelto di assistere questo gruppo di miscredenti nella trattativa, poi andata male, con il gruppo di Murdoch, facendosi giustamente pagare profumatamente? E come mai un difensore degli interessi del Paese diventa l’avvocato di un gruppo così poco raccomandabile? E se la memoria non ci tradisce Rossi ha accettato nello scorso settembre la presidenza di Telecom, anch’essa remunerata profumatamente, su proposta dell’azionista di riferimento, la Pirelli di Tronchetti Provera, senza battere ciglio e senza dire, men che meno, che andava a fare «pulizia» dei vari conflitti di interesse che peraltro non descrive. E per finire, durante i mesi della presidenza Rossi il titolo Telecom ha perso il 15% penalizzando così proprio quei piccoli azionisti che Rossi nella sua intervista dice di aver voluto difendere. Ha presentato inoltre un piano industriale modesto e bocciato dal mercato oltre che intralciare l’alleanza con la spagnola Telefonica.
La verità, naturalmente, è tutta un’altra. Rossi ha tentato di trasformare la Telecom in una «public company», termine magico per indicare una società in cui comandano i manager e non gli azionisti. Una società, cioè, apparentemente senza padroni controllata però da chi proprietario non è perché è solo un gestore autoreferenziale e quasi sempre inamovibile per gli intrecci perversi che attua con le banche e i fondi di investimento. Per dirla in italiano corretto Rossi tentava di impadronirsi della gestione di un’azienda come la Telecom piena di quattrini e di potere. Il gioco non gli è riuscito e abbiamo difficoltà oggi a vederlo come un arcangelo Gabriele con la spada tesa a difendere il Bene dal Male. Ed è grave, anzi gravissima, l’ultima sua dichiarazione nella lunga intervista a Repubblica. Il professore in un impeto di sincerità dice «questo è un Paese in cui o si muove la magistratura o non succede niente». È una minaccia, una sorta di chiamata alle armi di quanti molte volte sono intervenuti nel mercato a favore dei clienti del professore? Speriamo di no. Diversamente avremmo una riprova della esistenza di un grumo di interessi intollerabile che dovrebbe spingere le istituzioni europee a mettere l’Italia sotto tutela per difendere davvero il mercato e l’interesse di centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori.
Oggi gli azionisti di minoranza vedono l’opportunità di recuperare il denaro perduto con la proposta di acquisto della At&t e della messicana Movil, soci industriali autorevoli ed essenziali per lo sviluppo del Paese.
Geronimo
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