L’uomo che ci regalò il primo mondiale

Vinse 4 scudetti con il Bologna, giocando quasi gratis. Nel ’34 segnò in finale, poi svenne

Elia Pagnoni

A nzlèn era un gentleman. Era uno che sapeva difendere il pallone con i gomiti (come si diceva allora), ma anche uno sempre a disposizione del mister (come direbbero oggi). Anzlèn era Angiolino, o meglio Angelo Schiavio, il centravanti che regalò all’Italia il primo titolo mondiale con un gol segnato al 5’ del primo tempo supplementare al portiere cecoslovacco Planicka, il Cech di quei tempi, non uno qualunque. Eppure di quella squadra che appartiene alla mitologia calcistica, Schiavio non è mai passato alla storia come un uomo-simbolo: Vittorio Pozzo, ma anche Meazza, Ferrari, Combi, Mumo Orsi lo sorpassarono nella leggenda. Forse perché Schiavio è sempre rimasto legato a una sola squadra, il Bologna «che tremare il mondo fa», forse perché dopo aver chiuso la carriera ha preferito dedicarsi al negozio di abbigliamento ereditato dal padre, piuttosto che restare nell’ambiente del calcio, anche se negli anni Cinquanta accettò di far parte della commissione tecnica alla guida della nazionale. Ma forse anche perché, della sua valanga di gol (243) ne vengono cancellati dagli statistici più della metà, segnati prima della A a girone unico.
Ma Schiavio, nato esattamente cent’anni fa, il 15 ottobre del 1905, è stato un grandissimo della sua epoca: basti citare i quattro scudetti vinti con il Bologna tra il ’25 e il ’37, oltre alle due Mitropa Cup che era la Champions degli anni Trenta. Oppure ricordare i 15 gol segnati in nazionale in appena 22 partite, un po’ perché allora si giocava meno, un po’ perché si ritrovava sempre in ballottaggio con qualcuno, che fosse Libonatti, Sallustro o lo stesso giovane Meazza. Anzlèn il gentleman non se ne fece mai un problema, nemmeno quando venne preferito al vecchio Cevenini III e dovette giocare da mezzala “contro” l’Arena inferocita per la scelta del ct Rangone.
D’altra parte lui era uno di quelli che si faceva trovare sempre pronto (come direbbero oggi): al debutto con due gol alla Jugoslavia, nel ’28 con quattro gol alle Olimpiadi di Amsterdam dove l’Italia vinse il bronzo, nel ’34 quando Pozzo richiamò Schiavio come centrattacco di sfondamento (come si diceva allora). E obbedì ciecamente al ct persino quando lo mise in camera con Luisito Monti che quattro anni prima, con un’entrata criminale, gli ruppe una gamba. Anzlèn il gentleman arrivò in finale stremato, giocò i supplementari all’ala perché non ce la faceva più, ma su quel passaggio di Guaita si avventò con tutte le forze e segnò il 2-1 che ci regalò la prima Rimet. Dopo di che svenne.
Chiuse con l’azzurro dopo il mondiale, ma continuò a giocare per il suo Bologna, praticamente gratis, in un’epoca in cui i suoi compagni cominciavano a monetizzare mica male: Mumo Orsi arrivò alla Juve dall’Argentina per 8.000 lire più una Fiat con autista e la casa in collina; Schiavio non volle dal presidente Dall’Ara nemmeno l’auto («Ce l’ho già»).

Morì nel ’90, giusto in tempo per vedere i mondiali ancora in Italia, con un dispiacere per il suo Bologna finito per la prima volta in serie B. Scrisse una lettera aperta sul Carlino in cui invitò i dirigenti rossoblù a «non osar più apparire, per tutto il fango che hanno gettato sulla gloriosa squadra bolognese». E se ne andò da gentleman.

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