Cultura e Spettacoli

L’uomo che stampò sterline false per sfuggire alla camera a gas

Domani a Roma il novantenne ebreo slovacco Adolf Burger, il tipografo che ingannò Hitler

L’uomo che stampò sterline false per sfuggire alla camera a gas

Roma - Erano i «privilegiati» dei blocchi 18 e 19, nel campo di concentramento di Sachsenhausen, a una trentina di chilometri da Berlino. Circa 140, tra tipografi, linotipisti, grafici, disegnatori, incisori, esperti di contraffazione, quasi tutti ebrei. Scampati alle camere a gas, sapevano che sarebbero stati comunque uccisi affinché non rivelassero i segreti dell'Operazione Bernhard voluta da Himmler. Ma intanto, mentre a pochi metri da quelle baracche la gente crepava di stenti, godevano di pasti caldi, acqua, letti comodi, sigarette, vestiti, musica d'operetta di sottofondo. Perfino un tavolo da ping pong. Era «la gabbia dorata». Grottesco? Certo, ma vero. Il III Reich aveva bisogno di loro: tra il 1942 e il '45, stamparono qualcosa come 134 milioni di sterline false, tre volte il Fondo monetario della Gran Bretagna, per indebolire l'economia della «perfida Albione», e documenti, passaporti, francobolli. Poi sarebbero passati ai dollari, più difficile da riprodurre. La fine della guerra li salvò.

Il 25 gennaio, targato LadyFilm, esce Il falsario, film austro-tedesco del 46enne viennese Stefan Ruzowitsky. Un caso in patria, anche se gli incassi non l'hanno premiato; magari risponderà meglio il pubblico italiano, di nuovo attratto dal cinema tedesco dopo La rosa bianca, Quattro minuti e Le vite degli altri. Domani il regista sarà a Roma insieme al novantenne Adolf Burger, ebreo slovacco, l'ultimo di quel gruppo di falsari ad essere ancora in vita. Il numero 64401 ancora inciso sul braccio, Burger perse la prima moglie a Birkenau e venne risparmiato per un'unica ragione: era tipografo professionista. Nel film, tratto dal suo libro L'officina del diavolo, è incarnato, con dignitosa fierezza, da August Diehl, ma non è lui il protagonista, bensì Salomon Sorowitsch, nella realtà Salomon Smolianoff, l'ebreo russo-tedesco chiamato a sovrintendere alle attività di quel singolare team di falsari. Un'autentica canaglia, pronta a tutto per non darla vinta ai nazisti.

Nella prima scena lo vediamo approdare, a guerra finita, in un casinò di Montecarlo, la valigetta piena di dollari falsi, subito rimorchiato da una puttana d'alto bordo. «Sally» ha il viso ossuto e lo sguardo impenetrabile di Karl Markovics, quello del Commissario Rex: i soldi «sporchi» sono la sua assicurazione, e intanto parte il flashback, che lo riporta al 1936, quando frequentava facoltosi nazisti e belle donne, arricchendosi confezionando passaporti falsi per ebrei come lui.

Burger se lo ricorda bene quel «ritoccatore» geniale, gran ritrattista, uomo scaltro, capace di tener testa all'ispettore Bernhard Krüger, ideatore della gigantesca operazione di contraffazione. Smolianoff è morto in Argentina negli anni Sessanta. Così lo descrive Burger: «Era l'unico criminale tra noi, un vero falsario, ricercato già prima della guerra. Mi fece un bel ritratto a matita. Nonostante la sua perizia, fu difficile riprodurre i dollari. Dalla radio sapevamo che gli alleati stavano avanzando, così decidemmo di mischiare la gelatina per la stampa con altre sostanze. Però l'immagine del presidente sul dollaro era perfetta». In un'intervista rilasciata quest'estate alla Repubblica, confessò di aver chiuso per anni con quel tragico passato, fino al 1972, quando alcuni amici falsari gli spedirono dalla Germania un volantino. «Il neonazista Erwin Schoenberg offriva diecimila marchi a chiunque testimoniasse di avere visto una persona entrare nelle camere a gas. Non potevo più tacere. Ero un dirigente dell'Avis, avevo una buona posizione, ma non potevo più lavorare. Cominciai a raccogliere documenti in Europa, a girare per la Germania, a tenere conferenze nelle università e nei licei, raccontavo e mostravo immagini di Auschwitz e di Birkenau». Agli sceneggiatori del film ha imposto dei ritocchi, «per eliminare alcune sciocchezze». Come la faccenda dei dollari: ne riuscirono a stampare solo qualche centinaio, non milioni.

Il malinconico finale in riva al mare, con una bottiglia di champagne e la bella donna che si china sul protagonista scampato alla Shoah, custodisce una sorpresa che non sveleremo. Spiega il regista: «Dobbiamo parlare dell'Olocausto, abbiamo un obbligo morale, ma bisogna farlo cercando di raggiungere più spettatori possibile». Infatti Il falsario usa le tecniche del thriller e del genere carcerario, con stile spettacolare e coinvolgente, ma senza rinunciare a una domanda morale di fondo: «Si può giocare a ping pong in un lager mentre a pochi metri di distanza vengono torturate e uccise centinaia di persone? Che cosa significa scegliere tra sopravvivenza e dignità?».

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