Politica

L’utopia del partito che non c’è

Il dibattito è difficile e rischia di essere appesantito da comprensibili convenienze di parte o da convinzioni radicate nel vissuto storico di altri Paesi ma difficilmente trasferibili in Italia. Ci riferiamo naturalmente al progetto del partito democratico. Dopo il successo delle primarie Francesco Rutelli ha rilanciato quella lista unitaria tra Margherita e Ds che solo pochi mesi prima aveva escluso con la nota contrarietà di Romano Prodi e dei suoi amici. Una lista unitaria come ponte, secondo il Rutelli-pensiero, per un nuovo partito denominato democratico per testimoniare un comune sentire con i democratici americani. Condizione posta da Rutelli è che questo processo porti, alla fine, all’uscita dei Ds dal Partito socialista europeo così come i deputati della Margherita sono usciti un anno fa dal Ppe.
Fassino, dando voce agli umori dei suoi dirigenti e militanti, contrasta questo approdo ritenendo che il futuro partito democratico possa continuare a rimanere nel Pse. A sostegno di questa permanenza Fassino ricorda come la genesi di molti partiti socialisti europei ed extraeuropei è partita dalla confluenza di culture politiche diverse approdate, alla fine del percorso, al Partito socialista. E giù una serie di esempi, da quello francese (i cristiano-sociali di Jacques Delors, i repubblicani di François Mitterrand, i radicali di Pierre Mendès France) all’Anc di Nelson Mandela per finire al Pt di Lula e a quello del Popolo pachistano. Tutti dentro il Partito socialista europeo e nell’Internazionale socialista. Anche in Italia, risponde Fassino, è possibile dunque creare un partito (l’Ulivo) capace di restare nella grande famiglia del socialismo europeo ed internazionale.
Come si vede due posizioni profondamente diverse sul piano politico e su quello culturale. Il corso degli eventi si incaricherà di favorire l’una o l’altra tesi. Quel che appare sino ad ora, però, è la schizofrenica posizione dei Democratici di sinistra che non vogliono chiamarsi socialisti in Italia mentre lo vogliono essere in Europa e nel mondo. Ogni giustificazione storica (la scissione di Livorno, il craxismo degli anni Ottanta) a distanza di sedici anni dal crollo del Muro di Berlino non tiene più e la resistenza di Fassino e D’Alema a ricomporre la sinistra riformista italiana in un unico grande Partito socialista rischia di gettare ombre lunghe sul reale processo evolutivo del partito degli ex-comunisti. Per dirla in maniera ancora più chiara, l’Ulivo appare sempre più una scorciatoia mimetica verso quell’approdo socialista ora tanto più incomprensibile dal momento che l’iniziativa di Boselli e Craxi punta a rilanciare il socialismo liberale insieme al troncone radicale.
Ed allora è lecito chiedersi se nel prossimo futuro il partito di Fassino confluirà con la Margherita pure in presenza di un Partito socialista non più nano politico oppure sentirà il richiamo unitario socialista. O, resterà ancora, terza ipotesi, nel proprio partito privilegiando le alleanze piuttosto che un partito unitario. A queste contraddizioni che non sono da liquidare con una battuta polemica si aggiungono, naturalmente, quelle della Margherita e del progetto di Rutelli del partito democratico. Non basta, infatti, riferirsi all’esperienza americana. La cultura del cattolicesimo popolare, ad esempio, non ha mai contagiato profondamente la politica americana nonostante alcuni leader democratici come John Fitzgerald Kennedy fossero cattolici. Altro è essere cattolici altro è avere come cultura politica di riferimento il pensiero di Sturzo, di Toniolo, di Meda, di Moro, di Maritain e la dottrina sociale della Chiesa che hanno insieme innervato quelle forze politiche democratico-cristiane in Italia, in Europa e in Sudamerica. Nella Margherita vi sono circa due terzi di uomini e militanti che sono democratici-cristiani. Ad essi è possibile chiedere di abbandonare il Partito popolare (contenitore nel quale oggi vi sono filoni culturali diversi, da quello democristiano al gollismo francese per finire al conservatorismo inglese) così come hanno fatto un anno fa nel Parlamento di Strasburgo. A loro si può chiedere ancora di unirsi in Italia in un partito insieme ad un’area liberal-democratica come quella presente nella Margherita e convergere in Europa in un gruppo insieme ai liberali inglesi di Graham Watson.
Quel che ci sembra difficile chiedere ai Marini, ai D’Antoni, ai De Mita, ai Castagnetti, ai Franceschini e via di questo passo, è di arrivare sino al punto di confluire in Italia in un partito lessicalmente anodino e unico nel mondo (l’Ulivo) per poi convergere in Europa nel Partito socialista. Un salto culturale e politico che non potrà mai avvenire perché le grandi culture politiche non sono un dato sovrastrutturale e non si possono cambiare come un abito sgualcito. Si può ritenere, sbagliando, che la cultura politica democratico-cristiana sia superata, ma immaginare che essa, uscita politicamente vittoriosa da tutte le battaglie del secondo cinquantennio del Novecento e artefice principale della costruzione europea, possa scomparire dentro quella cultura socialista che per molta parte fu alternativa ad essa e per altra parte profondamente distinta, ci sembra più che un’utopia un errore politico e culturale gravissimo. Fassino e Rutelli, dunque, sono sostenitori, oggi, di due tesi diverse ma unite da un’unica convinzione partorita da quella matrice azionista che ha invaso parte rilevante dei grandi organi di informazione e cioè che le grandi famiglie politiche, quella socialista e quella democristiana, in Italia non abbiano più ragion d’essere. Da dieci anni si tenta di introdurre nelle arterie del Paese questa convinzione ritenendo che solo così potrà sorgere e crescere un partito liberale di massa quale dovrebbe essere il Partito democratico di Rutelli.

Una illusione e per questa illusione l’Italia sta pagando da dieci anni un prezzo altissimo.

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