L'addio di Prodi, trent’anni di disastri

Il Professore disse: "Io amo anche i miei errori, da loro imparo moltissimo". E non ha mai smesso di istruirsi

L'addio di Prodi, trent’anni di disastri

«Ho chiuso con la politica italiana», ha dettato domenica Romano Prodi, e la politica italiana non rimpiangerà questi trent'anni. Formidabile quel 1978, l'anno dei tre papi, di Leone e Pertini, dell'uccisione di Moro e dell'apparizione di un docente di Economia a Bologna protetto da Beniamino Andreatta che in pochi mesi brucia le tappe saltando dalla cattedra universitaria al tavolino di una seduta spiritica alla scrivania di ministro. Trent'anni che verranno ricordati per la sterminata antologia di sbagli e figuracce collezionate da uno che disse: «Io amo anche i miei errori, da loro imparo moltissimo». E siccome non si finisce mai di imparare, Prodi non ha mai smesso di prendere cantonate.
Già l'esordio doveva mettere in guardia sul futuro del Professore. Il debutto avvenne il 2 aprile 1978, 17 giorni dopo il rapimento Moro, attorno a un tavolo con 17 invitati: il pranzo della seduta spiritica da cui spuntò il nome «Gradoli». Un episodio su cui indagarono due commissioni parlamentari e che Prodi non ha mai chiarito. Piattino o posacenere, bicchierino o tazzina, pioggia o nuvole: è il festival delle contraddizioni. Oggi nessuno crede più al racconto del modo misterioso in cui sarebbe apparso il nome che indicava la prigione in cui le Brigate rosse detenevano Aldo Moro; molti pensano sia stato un modo per coprire una fonte dell'Autonomia bolognese.
In ogni caso, in nessun Paese al mondo uno che si presenta così avrebbe speranze di fare carriera politica. Prodi invece pochi mesi dopo era già ministro dell'Industria, approfittando di un’improvvida intervista di Donat-Cattin. Vi rimase 115 giorni nei quali legò il proprio nome alla legge sul salvataggio delle aziende in crisi: una norma che nei fatti non ha mai funzionato ma che gli guadagnò la fama di «riserva della Repubblica» pronto alla bisogna.
Negli anni dell'Iri, dal 1982 al 1989 e poi dal '93 al '94, svendette lo svendibile, e continuò a farlo quando si insediò a Palazzo Chigi. L'Alfa Romeo fu ceduta alla Fiat per poco più di mille miliardi di lire in contanti (la Ford offriva il triplo) da versare in cinque rate a tasso zero che gli Agnelli cominciarono a pagare sei anni dopo; operazione che costò a Finmeccanica una condanna della Commissione europea per aiuti di Stato. La Sme sarebbe passata nelle mani di Carlo De Benedetti per 497,5 miliardi se non fosse intervenuto Bettino Craxi, e otto anni dopo la privatizzazione fruttò quattro volte tanto: ma Cirio-Bertolli-De Rica finirono a un faccendiere protetto dalla Dc campana che si rivelò un prestanome della multinazionale Unilever, di cui il Professore era stato consulente fino a pochi mesi prima.
Dalle banche di interesse nazionale alla siderurgia, dall'industria petrolifera a Telecom, le privatizzazioni di Prodi hanno fruttato pochi soldi alle casse pubbliche: l'importante era alleggerire il carrozzone dell'industria di stato. E chi gli ha appiccicato la nomea di risanatore dimentica che lo Stato in sette anni versò all'istituto di via Veneto la bellezza di 41mila miliardi di lire.
Insediatosi nel '96 a Palazzo Chigi, Prodi fece capire subito quale sarebbe stata la parola d'ordine: spremere. Nella prima legge finanziaria varò l'eurotassa, un prelievo che doveva raddrizzare i conti pubblici per entrare nella moneta unica. Arrivarono oltre cinquemila miliardi di cui Prodi aveva promesso la restituzione integrale dopo il risanamento; in realtà nel 1999 ai contribuenti fu rimborsato il 60 per cento, una quota di fatto annullata dall'introduzione dell'addizionale Irpef regionale.
Più che governare, le torchiature Prodi e del suo braccio destro Visco hanno messo in ginocchio il Paese. È di pochi giorni fa la nota dell'Istat che la pressione fiscale ha toccato il 43,3 per cento del prodotto interno lordo, un record assoluto. Il tetto precedente risaliva al 1997. Guarda caso, al governo c'erano sempre loro.
Una tragedia anche i cinque anni alla guida della Commissione Ue a Bruxelles. I guai con i giornalisti e i portavoce, le gaffe per il suo emilian-inglese borbottato, la bufera dello scandalo Eurostat, le porte aperte all'invasione commerciale cinese, la Caporetto dell'allargamento a 25 voluto affrettatamente a ogni costo, fino all'affondamento della Costituzione, mal digerita da molti Stati, clamorosamente bocciata dai referendum in Francia e Olanda e sconfessata dal Vaticano perché il «cattolico adulto» Prodi si è ben guardato dall'inserirvi riferimenti alle radici cristiane.
Le parole di domenica suonerebbero come un auto-epitaffio. Ma non è detto. Intanto non lascerà la presidenza del Pd, parola del portavoce Sircana confermata da Veltroni. Circolano anche incredibili voci di un ministero in un eventuale governo guidato dal suo ex vice. E poi si fantastica sugli incarichi internazionali ai quali il Professore si prepara («il mondo è pieno di occasioni e di doveri»).

Anche a Bruxelles si preparano: sabato lo spettacolo di cabaret organizzato ogni anno dai corrispondenti esteri nella capitale belga è culminato in uno sketch sul suo ritorno. Uno scienziato che vuol clonare il futuro presidente Ue si ritrova davanti un omino in tuta e monopattino. «Il peggiore degli incubi! Il ciclista riciclato». Sipario e risate. A denti stretti.

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