Il ladro arrestato da Pisapia, involontario testimonial Pd

Pensare che ogni anno a Milano, di colpi così, se ne fanno settemila. Automobili lasciate aperte, con una valigia, un portafoglio, una sacchetto, qualunque cosa di appetibile sul cruscotto o sui sedili. I colpevoli la fanno quasi sempre franca. Se proprio la sfortuna li fa inciampare nei fratelli Branca, al peggio si fanno una notte in guardina, e l’indomani vengono rilasciati in attesa di un giudizio che chissà quando arriverà. Invece ieri mattina Domenico Montrone, 36 anni, se ne sta lì, malconcio e malfermo, dietro le sbarre della gabbia nell’aula delle direttissime, ad ascoltare l’ordinanza del giudice Pietro Caccialanza che lo spedisce in cella in attesa del processo che si terrà martedì prossimo. Come se non bastasse, qualche minuto dopo arrivano i giornalisti. E Montrone ha la prova finale che il destino gli ha riservato un trattamento crudele.
Il destino ha voluto che lui, ragazzo di strada cresciuto tra eroina e piccoli reati, finisse a fare da testimonial per la campagna elettorale di Giuliano Pisapia. Niente di volontario, per carità. Anche perché, come spiega Montrone attraverso le sbarre della gabbia, «io Pisapia non l’ho mica votato». Semplicemente, venerdì scorso Domenico ha adocchiato, in una traversa di via Vincenzo Monti, un’auto con una borsetta in bella evidenza. Senza stare tanto a pensarci ha aperto la portiera per acciuffare il magro bottino e sparire dalla circolazione. Invece la legittima proprietaria è riapparsa all’improvviso. E, quel che è peggio, pochi istanti dopo si è materializzato anche il candidato sindaco del centrosinistra, che viaggiava verso la periferia a fare campagna elettorale: ma si è reso conto che su quell’auto si stava consumando un caso evidente di microcriminalità, e senza pensarci due volte è intervenuto.
«Giuro che non volevo fare nessuna rapina, volevo prendere i soldi e scappare», ha raccontato ieri Montrone. Invece «all'improvviso me li sono trovati tutti addosso, prima una donna, poi un sacco di altra gente. Mi tiravano da tutte le parti, mi tenevano per il collo». É stato in quel frangente, ammette, che per divincolarsi ha dato un morso alla prima mano che si è trovato a tiro di mandibola. Poi è scappato, ma ha fatto poca strada. Lo staff del candidato aveva già chiamato il 113. E due moto della polizia lo hanno intercettato e bloccato poco più in là. Qualche ora dopo, un comunicato dell’aspirante sindaco rendeva nota l’impresa.
«Beh, sì, mi sono accorto che tra quelli che mi tiravano c’era anche Pisapia», racconta ieri Montrone: con l’aria di chi tutto nella vita si aspettava che finire davanti ai giornalisti, arrestato per mano di un leader della sinistra e giudicato da un giudice del processo Mills. A guardarlo, non fa venire voglia di festeggiare il suo arresto come un successo della lotta al crimine: macilento, il cranio rasato, uno di quei relitti che più che a San Vittore starebbero bene in una comunità di recupero. «Non mi aspettavo tanta severità», dice l’avvocato d’ufficio, quando il giudice invece di metterlo ai domiciliari lo spedisce ad aspettare il processo in carcere.

Per chi ha votato?, gli chiede un cronista mentre i poliziotti lo portano via. Lui fa per rispondere qualcosa, poi ci ripensa, alza gli occhi al cielo come per chiedere di essere lasciato in pace. Il giorno del ballottaggio lo passerà in una cella del sesto raggio.

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