
Era la primavera del 1947 quando Roberto Rossellini, all'epoca impegnato nei preparativi per Germania anno zero, ricevette una proposta dall'azienda Pirelli: la realizzazione di un film, un film che avesse però un'ambientazione specifica, che mancava al mondo dell'immediato dopoguerra, perfino in quello di stampo neorealista. Il marchio milanese, che festeggiava in quei mesi il suo settantacinquesimo anno di attività, voleva così dar vita a un immaginario industriale, realizzando un vero e proprio unicum visuale, che parlasse interamente di operai e fabbriche, impresa in cui nessun cineasta italiano fino a quel momento si era cimentato.
Rossellini non si tirò indietro, accettò l'incarico e insieme a tre dei suoi collaboratori concepì un primo soggetto, giudicato in breve troppo poco convincente nella trama. Occorreva quindi che qualcun altro contribuisse a quello sforzo, doveva essere individuato uno scrittore e quello scrittore venne subito nominato: Alberto Moravia, già abbastanza celebre in quel periodo, dopo l'esordio con Gli indifferenti nel 29 e i successivi Le ambizioni sbagliate, La mascherata e Agostino: tutti romanzi che non fecero che imporlo all'attenzione nazionale, nonostante le traversie del Ventennio fascista.
Come Rossellini Moravia disse di sì alla Pirelli, rivitalizzando quella storia e dandole una straordinaria forza narrativa, in grado di condurla ai suoi esiti finali: il concept di una pellicola estremamente coraggiosa per l'Italia di quegli anni, sperimentale da tanti punti di vista e che tuttavia non vide mai la luce. Questa è la nostra città: così doveva intitolarsi quel lavoro tanto innovativo, da allora mai più rimaneggiato ma che proprio in questi giorni viene reso disponibile dall'editore Bompiani (pagg. 192, euro 18), che lo ha appena dato alle stampe, con la curatela di Alessandra Grandelis e la postfazione di Giuseppe Lupo.
Corredato da un interessante apparato fotografico, il volume ci guida in quella che l'autore romano intese subito come una narrazione peculiare, che doveva essere rappresentativa di uno spaccato preciso della nostra nazione. Moravia ultimò così un dattiloscritto di centonove cartelle, divise tra primo e secondo tempo, in cui volle raccontare con altri occhi il capoluogo lombardo, volle dipingere la Milano della ripresa postbellica e lo fece ricorrendo all'umile famiglia Riva, originaria delle campagne e affluente in quella città come molta altra gente, destinata ad essere impiegata negli stabilimenti di pneumatici della Pirelli.
Già la scena d'apertura è significativa, con un'aria «grigia e fredda di un'alba della fine di autunno. La terra di un orto coi solchi», scrive asciuttamente Moravia, «e le piante allineate in fila. Una grossa mano rugosa si tende verso le zolle a strappare le erbacce. Un paio di grosse scarpe. Un paio di pantaloni da operaio».
L'uomo, descritto come vecchio e canuto, svellerà poco dopo una cipolla, andando ad appesantire un'atmosfera già densissima, assai lontana da scenari piacevoli e che costituirà una costante di Questa è la nostra città: opera in cui Moravia e Rossellini hanno riflettuto sulla dimensione del sacrificio in modo non banale, per nulla retorico o semplicistico; dove il quotidiano degli svantaggiati, in questo caso dei dipendenti della Pirelli, non è solare e compassionevole bensì tormentoso, è intricato e pieno di mistero e inquietudine; è spesso gelido, come l'alba descritta all'inizio, che diventa per questo metafora di quella parte di umanità, su cui non pochi intellettuali del 900 tardarono a posare lo sguardo.
Moravia quello sguardo lo posò attraverso un mezzo che sentì fin dal principio familiare, e che non a caso legò sempre alla sua speculazione letteraria. Del resto, per sua stessa ammissione, fin da ragazzo non faceva che frequentare sale di proiezione, dove si recava anche tre volte al giorno. Dal 1940 iniziò inoltre la sua carriera di sceneggiatore, da unire a quella di critico cinematografico.
L'edizione di Questa è la nostra città è dunque un'occasione anche per ricordarci di tutto questo, ossia di quanto cinema e letteratura siano stati inscindibili per Moravia, che era affascinato da Luis Buñuel e Charlie Chaplin, mentre un po' meno da Jean-Luc Godard. Lo scrittore nominava spesso Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, e seguiva da vicino Bernardo Bertolucci e Pier Paolo Pasolini; mentre a Roberto Rossellini, che giudicava il più grande di tutti, assegnava un posto particolare. «Era un animale da cinema» confessò una volta, «aveva l'obiettivo dentro l'occhio. Sapeva stabilire con la realtà un rapporto ineffabile. Era dotato di una capacità di sintesi del tutto inconsueta».
Qualità che Alberto Moravia sfruttò per la vicenda che aveva in mente, per quella che doveva essere una piccola epopea dei poveri sopravvissuti alla Grande guerra, un racconto nato non per mitizzare un possibile riscatto ma per disvelare verità necessarie, per far scoprire all'Italia una parte di sé stessa, ancora oscura e senza parole.
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