A circa metà film entra in scena Jesse Plemons. Rimane sullo schermo quattro-cinque minuti, è strepitoso, e ci sta come un dio che giudica, assolve e condanna. È in uniforme mimetica, fucile mitragliatore M16, capelli cortissimi biondo platino ed enormi occhiali da sole rossi a forma di cuore (poco prima c'era un cecchino dai tratti asiatici con le unghie smaltate di rosa). Di fronte a sé ha quattro giornalisti impietriti dal terrore. «Chi siete?», chiede calmissimo. «Americani», è la risposta. C'è un lunghissimo silenzio. E poi: «Che tipo di americani?», replica il dio-guerriero.
Ecco. Nel film Civil War (dal 18 aprile in sala), scritto e diretto da Alex Garland (che non è americano, è inglese, ed è lo sceneggiatore di 28 giorni dopo, Ex Machina, Annientamento e Men), ci sono diversi tipi di americani. Quelli arruolati nelle Forze occidentali; i separatisti che vogliono la secessione dallo Stato centrale; i governativi che stanno con il Presidente, sicuro di condurli alla più grande delle vittorie militari; quelli che cercano di «starsene fuori», per quanto si possa rimanere fuori da un'apocalittica guerra civile; e poi la stampa: giornalisti e fotoreporter, neutrali e legibus soluti, protetti dal loro tesserino «Press».
Civil War - film virtuosistico, impietoso, fluido, radicale, distopico, speriamo non profetico, persino gelido di fronte agli orrori, un po' riflessione sulle tensioni politiche in America, un po' meditazione sulla guerra, di solito vista al di fuori dei confini occidentali, ora invece esplosa a casa tua, e un po' infine sottile ragionamento sul ruolo dell'informazione oggi - racconta un immediato futuro, o un possibile recente passato (e ci riferiamo all'assalto dei miliziani trumpiani a Capitol Hill il 6 gennaio 2021) in cui gli Stati Uniti sono sull'orlo del collasso. Non si sa, e non importa sapere, cosa abbia scatenato la guerra civile. Da una parte c'è un gruppo di Stati ribelli capeggiati da Texas e California, dall'altra il Governo Centrale con un presidente al suo Terzo mandato e che ha sciolto l'Fbi (ma non si dice mai se è democratico o repubblicano). Tutte le atrocità delle guerre che abbiamo sempre visto in giro per il mondo (profughi in fuga, code per l'acqua potabile, terroristi-kamikaze, torture, fosse comuni...) adesso hanno come sfondo l'altrimenti placida vita quotidiana americana... Non si sa più quali sono gli Stati blu e quelli rossi, né chi siano i ribelli o i patrioti, la linea del fronte lambisce l'isoletta della Statua della libertà e i parchi giochi all'aperto possono diventare pericolosissimi. Qui, fra città sventrate dalle bombe, le iconiche autostrade piene zeppe di carcasse d'auto, elicotteri schiantati a terra, suprematisti bianchi, sciacalli giustiziati, parcheggi di supermercati deserti e carrelli della spesa ribaltati (il peccato d'origine di ogni consumismo), un gruppetto di reporter cerca di raggiungere Washington, dov'è asserragliato il Presidente, per portare a casa l'ultima intervista e la foto più pagata. C'è Lee Miller (Kirsten Dunst), la fotografa di guerra diventata leggenda vivente. C'è la giovanissima fotografa che guarda a Lee come mentore (Cailee Spaeny). E fra le due accade esattamente ciò che racconta il film Eva contro Eva (1950), il classico fra i clasici di Joseph L. Mankiewicz. C'è Joel, reporter adrenalinico (Wagner Moura). E c'è il veterano del giornalismo politico Sammy (Stephen McKinley Henderson). Dopo 857 miglia di sangue, terrore, sur-realtà, musiche meravigliose, un sonoro impressionante, scene d'azione magistrali, filosofia spicciola sul giornalismo («I reporter raccontano quello che succede, le domande le fa chi legge»), divagazioni sulla teoria dello sguardo, bloodshed e dilemmi etici (la foto del tuo collega morto, la salvi o la cancelli?), i sopravvissuti arriveranno a Washington. Poi preparatevi all'assedio della Casa Bianca più bello della storia del cinema.
Tra le pecche del film: alcune incongruenze nella sceneggiatura (i giornalisti sono un po' troppo liberi di girare come vogliono, le fazioni contrapposte sono indistinguibili) e la scena madre, ma chi se ne frega. Visivamente è impagabile.
Tra le cose più belle del film: il silenzio più lungo post-esplosione dell'intera storia delle esplosioni cinematografiche; Kirsten Dunst-Lee Miller nella vasca da bagno dell'albergo che cita la grande fotoreporter Elizabeth Lee Miller (1907-77) ritratta dal suo compagno nella vasca da bagno dentro l'appartamento di Adolf Hitler a Monaco dopo la caduta della città nel 1945; il momento in cui a Charlottesville, base militare delle Forze occidentali, si alza e sbatte maestosa al vento la bandiera degli Stati Uniti con le strisce ma con solo due stelle; veder perdere la fede nel potere del giornalismo; scoprire che lo strumento della vendetta finale, la Grande Risolutrice, è un sergente: donna e nera.
Civil War filma la Storia mentre sta accadendo, una delle possibili cronache del nostro presente, le inquietudini pre elettorali che serpeggiano lungo tutti gli Stati Uniti e le debolezze del concetto stesso di Democrazia.
Il film non dà spiegazioni, meno che mai risposte, vuole essere divisivo anche se molto probabilmente finirà con il riunire gli americani e preferisce lasciare a noi tutte le domande. E magari la necessità di una preghiera.God Bless America.
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