È di razza reggiana e, come tale, cocciuto e per nulla avvezzo a mediare. Punti di forza, o di debolezza, secondo l’angolazione da cui lo si guarda, di Maurizio Landini, classe 1961, comunista convinto e da molti visto come il vero «anti-Vendola», il futuro portabandiera della sinistra estrema. Nominato in giugno a capo della Fiom, Landini ha subito intrapreso un estenuante braccio di ferro con la Fiat che ha portato il sindacato rosso a isolarsi dalle altre organizzazioni metalmeccaniche.
Sul suo libro nero il nome di Sergio Marchionne occupa di sicuro la prima riga della prima pagina: l’amministratore delegato della Fiat è il nemico da abbattere e il progetto «Fabbrica Italia» una mera follia. Con un paradosso: senza Marchionne, Pomigliano e Mirafiori, il nome di Landini sarebbe rimasto quello di un emerito (quasi) sconosciuto. Chi lo conosce bene, però, ritiene che per lui questo è l’ultimo dei problemi: testardo sì, ma non vanitoso. Secondario anche l’aspetto economico. Dice un compagno di battaglie: «Non è per i 3.000-3.500 euro al mese (più del doppio di un operaio Fiat, ndr) che Landini ha scelto di votarsi alla causa Fiom, ma perché crede in quello che sta facendo, tanto da riuscire a condizionare la stessa Susanna Camusso», da poco alla guida della Cgil. Un irriducibile, dunque, «e proprio per questo è pericoloso e da non sottovalutare».
Nato come apprendista saldatore in un’azienda metalmeccanica, Landini ha subito scelto, al posto della fabbrica, la strada del sindacato con due padri adottivi, entrambi reggiani, ed ex leader della Fiom: Gianni Sabatini e Gianni Rinaldini. «È sindacalista e resterà tale, la carriera politica che si è spalancata ad altri rappresentanti dei lavoratori non sembra per ora attirarlo» è opinione diffusa.
Le sue battaglie ideologiche, il capo della Fiom preferisce per ora combatterle alla testa dei metalmeccanici, anche a rischio di perdere per strada i pezzi e di vedere ritorcersi contro affermazioni poco felici come l’invito rivolto a Piero Fassino e Sergio Chiamparino a mettersi «nei panni di un lavoratore che guadagna 1.300 euro al mese». «Da che pulpito», in molti hanno pensato, tra i quali lo stesso Massimo D’Alema.
Un sindacalista rosso, dunque, che non sembra voler approfittare della sua testardaggine, vista in senso positivo da chi lo segue ed è perfino disposto a rischiare il posto in fabbrica pur di non tradirlo, per pensare a uno scranno alla Camera o al Senato.
Sempre chi lo conosce non vede per lui, salvo imprevisti, un destino politico, Non dovrebbe imitare, insomma, Franco Marini, Sergio D’Antoni, Ottaviano Del Turco, Savino Pezzotta, Giorgio Benvenuto, Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Pierre Carniti, Antonio Pizzinato, Cesare Damiano e Maurizio Zippon. Una lista lunghissima, alla vista della quale molti militanti storcono il naso: «Per un sindacalista - dicono - fare il ministro o entrare in quei palazzi è un non senso. Sono tutti calamitati dal potere». Attenzione, però. Perché con una sinistra allo sbando dove a dominare è il «tutti contro tutti» e non c’è la parvenza di un programma, se non quello di vedere Silvio Berlusconi fuori dai giochi, c’è chi vede proprio nella cocciutaggine reggiana di Landini il vero simbolo di una nuova opposizione extraparlamentare (Nichi Vendola è avvisato) e un possibile rivale della stessa Camusso. Dalla sua, infatti, c’è l’ingrediente principale per aspirare a tale posizione: il pessimismo. «Più va male, meglio è; il pessimismo e il disfattismo fanno parte della logica settaria dei gruppettari», spiega un metalmeccanico di vecchia scuola.
Non sappiamo, a questo punto, se Landini avrebbe preferito restare nel semi-anonimato oppure se, in fondo, riconosce un po’ di gratitudine a Marchionne e all’odiata Fiat: questo articolo avremmo potuto non scriverlo mai.
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