L'angelo custode di Palazzo Marino

Franco Brigida. È l’unico italiano domiciliato in piazza della Scala. Assunto in Comune 37 anni fa, doveva andare in pensione il 31 dicembre ma resterà sino al 2008 perché vuole che la figlia si sposi nella chiesa di San Fedele

L'angelo custode di Palazzo Marino

È l’unico italiano domiciliato in piazza della Scala a Milano. Al numero 2. Come Pirelli (gomma), Branca (fernet), Brugola (viti) e Rovagnati (prosciutti), di lui si conosce solo il cognome: Brigida. Mezza giornata per trovare qualcuno che fosse in grado d’indicarmi il nome di battesimo: Franco. Per scoprire solo ieri che al fotografo ha detto di chiamarsi in realtà Giuseppe Franco.
Brigida è Brigida, e basta. Il custode di Palazzo Marino. Un’istituzione. L’archetipo del milanese: laurà, laurà, laurà, sémper laurà. Lo fa per il Comune da 37 anni e ne ha appena 59. Dunque meritevole del premio Protagonisti invisibili della città, conferitogli sotto forma di michetta d’argento dall’Associazione panificatori, «e in effetti il mio contributo non si nota, come le polveri sottili: cerco di mandar via tutti contenti». Brigida rappresenta meglio di chiunque altro la Milano che lavora ancora per il pane, non per la celebrità, avendo sempre ben presente, figlio d’immigrati com’è, che «chi volta el cùu a Milan, volta el cùu al pan».
Ha servito sette sindaci - Aldo Aniasi, Carlo Tognoli, Paolo Pillitteri, Giampiero Borghini, Marco Formentini, Gabriele Albertini e Letizia Moratti - e uno, Aniasi, ha avuto il dispiacere di vegliarlo anche da morto nella Sala Alessi, su al piano nobile, composto nella bara.
Brigida avrebbe dovuto godersi la pensione fin dal 2004, visto che prima d’essere assunto in municipio ha fatto per sei anni il tornitore. S’era finalmente ripromesso di riconsegnare le chiavi della Casa di Tutti il prossimo 31 dicembre, ma poi ha deciso di rinviare al 1° agosto dell’anno venturo per motivi affettivi: «Il 29 giugno si sposa la mia primogenita, Elisa, 27 anni, e ci tiene tanto che io l’accompagni all’altare nella nostra chiesa, San Fedele, proprio qui dietro. Non posso cambiare parrocchia proprio ora, le pare?».
Di figlie Brigida ne ha altre due: Paola, 22 anni, chef in Francia, e Martina, 18, la più precoce: a 16 lo aveva già reso nonno, mettendo al mondo Rebecca. Sono cresciute a Palazzo Marino, ma hanno visto la luce nella clinica Regina Elena. A mamma e papà non sarebbe mai saltato in mente di chiamare l’ostetrica e farle nascere in casa: i vagiti avrebbero disturbato le commissioni consiliari, visto che le camere da letto sono al secondo piano del municipio.
Per lo stesso motivo, la moglie del custode-portinaio si fa riguardo a cucinare il piatto preferito dal suo Franco, la cassoeula, che spanderebbe gli effluvi di verze e cotenne fino in Giunta, nonostante il soffitto della cucina raggiunga la ragguardevole altezza di 5 metri. Il fatto è che Brigida considera davvero Palazzo Marino un po’ casa sua, quindi lo rispetta. Ed è ricambiato dai transeunti inquilini con identica deferenza, come testimoniano gli aggettivi distillati da Pillitteri quando gli ho chiesto ragguagli sul personaggio: «Buono, perbene, disponibile, un vero milanesone, disinteressato, simpatico, grande diplomatico. I sindaci passano, ma i Brigida restano».
La postazione del portinaio è sulla destra, appena entrati. Tre telefoni, cinque pulsantiere, quattro monitor che rimandano le immagini delle telecamere di sorveglianza e due alveari di legno con 342 cellette per custodire chiavi e pass, roba che il concierge del vicino Grand Hotel et de Milan se li sogna. Accanto, mimetizzato nella boiserie, il varco da cui si accede alla sua abitazione, in cui l’unico tratto di audacia è rappresentato da una gabbia dentro la quale sonnecchia un coniglio fuorilegge: gli animali, in base al regolamento comunale, non avrebbero diritto di cittadinanza in municipio.
Brigida ha il suo piccolo esercito - quattro commessi che prendono ordini da lui - e indossa come se fosse un’uniforme militare la divisa che Alberto Bonetti Baroggi, l’allora capo di gabinetto del sindaco Albertini, studiò per lui: giacca grigia con mezzemaniche e bavero di velluto nero, delimitati dal cordoncino biancorosso, il colore della città; stemma del Comune sui revers, sui bottoni d’oro e in filigrana sulla cravatta nera; camicia candida. Ah, se lo vedessero suo padre Antonio, che fu per 35 anni autista «del civico obitorio», e il nonno materno Luigi Cerri, che smise di fare il contadino a Settimo Milanese per dedicarsi «ai civici giardini»...
Due generazioni di Brigida al servizio del municipio.
«Sì, ma solo io sono nato qui. Mio nonno Giuseppe era di Foggia e aveva sette figli. Venne a Milano nel 1930 per fare lo stagnino».
Ricorda il suo primo giorno di lavoro?
«Come no: 16 aprile 1970. Mi misero a lavare i vetri al settore sport e turismo. Avevo presentato domanda di assunzione come operaio generico. Fui preso all’istante, a condizione che mi licenziassi dalla Borletti entro tre giorni. Altri tempi».
A Palazzo Marino come c’è arrivato?
«Andò in pensione Angelo Chiesa, il portinaio che ha occupato questo posto per un ventennio. La prima volta però fui mandato a sostituire il Granzetti, che faceva il custode notturno. Cominciavo alle 7 di sera e finivo alle 7 di mattina. Il sabato turno unico, ventiquattr’ore filate».
Be’, ma qualche pisolino l’avrà schiacciato.
«Scherza? Ogni due ore c’era il giro del palazzo da fare. Stanza per stanza».
Quante sono?
«Non le ho mai contate. Un centinaio di sicuro. Stiamo parlando di un edificio con una pianta di oltre 3.000 metri quadrati. Moltiplichi per i tre piani, più i due mezzanini, sempre tanti sono».
Fa ancora il giro di notte?
«Adesso di ronda ci vanno quattro commessi».
Perché si chiama Palazzo Marino?
«Fu realizzato nel 1558 dall’architetto Galeazzo Alessi su commissione di Tommaso Marino, un ricco mercante di origine genovese. Il sindaco Antonio Beretta lo elesse a sede della civica amministrazione il 9 settembre 1861. Pur essendo a due passi dal Duomo, appena sorto era l’ultima casa della città. La facciata dava sui campi, in mezzo ai quali c’era la chiesa di Santa Maria alla Scala, da cui avrebbe preso il nome il teatro costruito due secoli dopo».
Qual è la stanza più bella?
«Senz’altro la Sala Alessi, dove vengono ricevuti i capi di Stato e si tengono le cene di gala del dopo Scala. Quando non diventa camera ardente. Nel maggio del 1873 ci fu esposta la salma di Alessandro Manzoni. Nel mio piccolo ho fatto in tempo a vedere i milanesi in coda per rendere omaggio al poeta Eugenio Montale ma anche alle cinque vittime della strage di via Palestro. Gli affreschi originali del soffitto andarono distrutti nel tragico bombardamento di Ferragosto del 1943, quando gli ordigni caddero anche sulla Biblioteca Ambrosiana, mandando in fumo 55.000 tomi antichi, compresi alcuni testi d’astronomia chiosati a mano da Nicolò Copernico».
I suoi compiti, di preciso, quali sono?
«Eh, se stessi qui a elencarglieli tutti... Dall’identificazione di coloro che si presentano all’ingresso fino agli interventi d’urgenza».
Cioè?
«Si rompe il tubo del gabinetto, ha presente?».
Certo.
«Un sabato notte vedo gocciolare acqua dal soffitto. Corro al piano di sopra: s’era rotto un calorifero nella Sala dell’Orologio, la stanza di rappresentanza accanto all’ufficio del sindaco. Quattro dita d’acqua. Venezia, guardi».
Ha chiamato i pompieri?
«Macché pompieri. Prima ho chiuso le chiavi d’arresto e poi me la sono raccolta da solo. Strofinacci, secchio e olio di gomito».
È vero che il sindaco Formentini, su sollecitazione del compagno di partito Roberto Calderoli, le ordinò d’impedire l’accesso a Palazzo Marino di Gilda, la cagnetta di Luigi Negri, cognato di Calderoli, e di sua moglie Elena, all’epoca consigliera della Lega, colpevoli d’aver tradito Bossi alleandosi con Berlusconi?
«C’è un regolamento che impedisce la presenza di animali in municipio».
Sì, ma in precedenza non veniva fatto valere.
«La consigliera Elena Gazzola è sempre entrata dalla porta di servizio, quindi non saprei dirle».
Le è anche capitato, proprio mentre era in visita il ministro per l’Innovazione, Lucio Stanca, di dover dare un imbarazzante annuncio dagli altoparlanti: «I dipendenti sono pregati di spegnere i computer perché sono ancora infettati dal virus Kamasutra».
«Cooosa? No, no, no!».
Come no? Era scritto sui giornali.
«Chissà che cosa vi sarete inventati. C’era stato un primo tentativo d’intrusione da parte di un hacker. Si temeva che ne fosse in corso un secondo, per cui mi fu ordinato di avvisare che i computer non dovevano essere accesi. Mai parlato del Kamasutra, io!».
Dev’essere una vita d’inferno, qui dentro.
«Perché, scusi?».
In famiglia non potete litigare, alzare la voce, tenere alto il volume della Tv, mangiare la zuppa di cavolo o la frittura di pesce.
«Per gli odori di cucina, mia moglie cerca di stare su piatti leggeri, tipo il risotto allo zafferano, ma un po’ di profumo si sente sempre, c’è poco da fare. Per il resto ho sempre evitato l’aggressività. È una lezione che ho imparato da Chiesa: gentilezza, gentilezza, gentilezza. In ogni caso i muri sono piuttosto spessi. Almeno 80 centimetri».
Arrivano molti pacchi dono a Natale per sindaco, assessori e consiglieri?
«Non tantissimi. Anni fa di più. Sono andati calando. Spesso panettoni e spumanti li lasciano a me».
Meglio sindaco di Milano o parlamentare a Roma?
«Sindaco di Milano. A seconda del dicastero, meglio anche di ministro. Il sindaco di Milano lo conoscono tutti. Certo, qui c’è da lavorare di più».
Dei sette primi cittadini che ha servito, chi è lo stakanovista?
«Spiacente, ma fare graduatorie non mi compete».
Sindaci che venivano a lavorare di domenica ne ha conosciuti?
«Quasi tutti».
A Natale, Pasqua e nelle altre feste comandate?
«Quelli sono proprio i giorni in cui devono essere più presenti. Si recano in visita nelle case di riposo, negli ospedali, negli orfanotrofi».
Lei che orario fa?
«Dalle 7 alle 19, con tre ore d’intervallo dalle 13 alle 16».
Risponde al citofono di Palazzo Marino anche il sabato e la domenica?
«Il sabato sono in guardiola dalle 7 alle 13. Ma anche dopo la chiusura c’è sempre gente che ti suona perché deve consegnarti una busta o andare in ufficio. E poi ci sono i turisti che chiedono informazioni».
Quanto guadagna?
«Milleduecento euro netti al mese, più gli straordinari».
Ma il governo non vi aveva proibito gli straordinari?
«La norma è stata tolta. Durò solo cinque mesi».
Per lei durissimi, immagino.
«Può dirlo. Mi sentivo sottoutilizzato. Il pomeriggio cercavo d’ingannare il tempo accompagnando mia moglie a fare la spesa. Adesso va molto meglio. Il lavoro è tutto. Rende l’uomo autosufficiente, utile alla sua famiglia e alla società, gli consente di esprimere al meglio le proprie capacità. Bisogna essere scrupolosi, sul lavoro. Qui cappellate non puoi farne: finisci subito sui giornali».
Per chi vota?
«Questo è un affare privato, se permette».
Pillitteri l’ha definita «un democristianone».
«Sono legato al mondo centrista».
Un’amica di Bettino Craxi mi ha giurato che lei è socialista.
«Dc e Psi non erano il centro della politica?».
Come Berlusconi e Veltroni oggi.
«Non mi ricordo...».
Cosa?
«Se il consigliere comunale Silvio Berlusconi è alla seconda o alla terza legislatura. Quando può, viene anche lui a Palazzo Marino».
Pare che lei sia l’unico in grado di sedare i tumulti in piazza della Scala.
«Fra i miei compiti c’è anche quello d’impedire l’invasione del municipio. Qui fuori le proteste sono all’ordine del giorno: ieri sessantottini e hippy, oggi scioperanti, sfrattati, licenziati, cassintegrati. Allora io esco e cerco di capire che cosa vogliono. Se lei tiene un comportamento corretto verso il prossimo, s’interessa ai suoi guai, lo lascia parlare, di norma tutto finisce bene».
Finché nel maggio 2003 non inseguirono lei e la avvolsero in una grande bandiera rossonera.
«Disonore! Per festeggiare la loro sesta Champions League i facinorosi consiglieri comunali di fede milanista mi usarono violenza».
Sono tanti, eh.
«Quasi tutti di quella parte. Hanno anche il Milan club. Per fortuna tre mesi fa il consigliere Paolo Bianco della Lista Moratti ha costituito l’Inter club, presieduto da Manfredi Palmeri di Forza Italia, che mi ha consegnato la tessera di socio onorario».
Ma Letizia Moratti tifa per la squadra del cognato o per il Milan?
«Credo che sia interista. Spero! Sua cognata Milly Moratti della Lista Ferrante mi ha regalato la maglia numero 9 autografata da Julio Cruz. Anche se io sono ancora fermo a Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso, all’Inter di Herrera».
Com’era la Milano di quel tempo?
«Andava ancora in bicicletta. Era indaffarata solo per il lavoro. Ora è intasata di traffico per lo shopping e il fitness. Io non ho ricordi di impiegati che andassero prima in palestra e poi in ufficio. Però negli Anni 60 c’era tanto inquinamento, sul cofano della mia 600 trovavo pezzi di catrame grossi così. Oggi mi pare più pulita».
Che cosa pensa della politica?
«Dipende da come viene fatta.

Se viene fatta per il bene dei cittadini, meno male che c’è la politica».
S’è mai preso una ramanzina da qualcuno dei sette sindaci che ha servito?
«No, mai. Secondo lei sarei ancora qui?».
(398. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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