Spettacoli

L'arte di "Boris Godunov" spiega anche il presente

Alla Scala la stagione inizia con l'opera (contestata) di Musorgskij su ascesa e caduta di uno zar corrotto

L'arte di "Boris Godunov" spiega anche il presente

Giorni di fuoco alla Scala. I sindacati minacciano scioperi in mancanza di un accordo sul rinnovo del contratto di lavoro, come da copione all'avvicinarsi dell'inaugurazione di stagione, il 7 dicembre. Nel frattempo la coperta si fa più corta poiché il Comune taglierà il già scarso contributo mentre salgono i costi di energia e materie prime; il +10% delle sponsorizzazioni, un primato scaligero da 44 milioni, e l'amento dei ricavi da biglietteria basteranno a compensare il tutto? A chiudere il cerchio di fuoco ci pensa l'opera di apertura della Scala: Boris Godunov di Musorgskij, melodramma russo sull'ascesa e soprattutto caduta di uno zar infanticida, fra boiari corrotti e un popolo servile. La Russia ne esce insomma malissimo, anche per via della regia di Kasper Holten che crea e sbalza in primo piano la figura del principe ereditario, bimbo di 7 anni, silente ma eloquente nei suoi abiti bianchi macchiati di sangue. Eppure la scelta dell'opera, dato il conflitto russo-ucraino, ha sollevato un vespaio di polemiche pretestuose: la lunga ombra su questa Prima anno 2022.

E così, nel presentare l'Ur-Boris del 1869, la versione primigenia di un'opera più volte rielaborata dal compositore e colleghi, il sovrintendente della Scala Dominique Meyer, il direttore musicale Riccardo Chailly e il regista Holten, chi fra le righe e chi fuori dai denti, hanno sentito necessario giustificare il fatto che Boris Godunov non sia stato cancellato dal cartellone. Lo hanno fatto gomito a gomito con un cast di cantanti russi di prim'ordine e punta nel basso Ildar Abdrazakov, il miglior Boris sulla faccia della Terra, arrivato al ruolo del titolo per gradi: a 23 anni fu la guardia Mikitic nel Boris allestito all'Opera di Roma nel 1999. Abdrazakov è alla sua sesta prima della Scala, dopo 21 anni di collaborazione e 88 presenze. «Il mio è un Boris con anima e cuore, ma con il pensiero fisso del bimbo ucciso, un pensiero che via via cresce sino a farlo impazzire» spiega. E ringrazia «Chailly e Meyer che hanno mantenuto in cartellone quest'opera. Tanti teatri cancellano la cultura russa, ma qui si va avanti». E Chailly: «Non avrei mai pensato di fare Boris se non avessi potuto contare su Abdrazakov. Ne parlammo durante le rappresentazioni di Attila, nel 2018».

È questa un'opera sul «potere e cinismo, priva di un intreccio sentimentale. Musorgskij mette in discussione il potere smascherandone la brutalità, una ragione in più per proporre quest'opera oggi», prosegue Holten. «Il protagonista mi ricorda Riccardo III e Macbeth e, proprio come in Shakespeare, l'opera è abitata da spettri. Sono i fantasmi del passato, le vittime dell'uomo di potere che lo inseguono e ne turbano la coscienza. Poi ci sono i fantasmi del futuro, i figli di Boris che condividono lo stesso destino dello zarevic assassinato. La violenza si ripete» dice ancora il regista che ha disegnato uno spettacolo dove emerge il tema «della manipolazione dell'opinione pubblica da parte di chi ha il potere». Occhio dunque alle grandi scene di massa, ai superbi cori - preparati da Alberto Malazzi - che in Boris sono tra i protagonisti chiave. Altro tema. La ricerca della verità incarnata dal monaco Pimen (Ain Anger) «impegnato a scrivere la storia veritiera, un po' come i giornalisti che lottano per la libertà di parola» (Holten). Idea che scenicamente viene tradotta da una enorme pergamena che si mangia il palcoscenico, «è il fiume della storia attorno al quale vediamo la Russia dei torbidi, un Paese frammentato dalle tensioni» e illustrato da una gigantesca carta geografica che si squarcia.

«In questo fiume, passato, presente e futuro si mescolano, lo stesso accade con i costumi: alcuni dell'epoca di Boris (1551-1605), altri di Puskin (1799-1837) e anche contemporanei. La storia di Boris parla di vittime innocenti, di uomini che cercano il potere con cinismo. Uomini che sono gli stessi dell'epoca di Boris, di Puskin e forse anche della nostra», spiega il regista. Pur nella tragedia riusciremo ad abbozzare un sorriso nella scena della taverna, all'ingresso di Varlaam (Stanislav Trofimov) che «fa della ubriachezza la sua bravura.

Molto flamboyant».

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