Il problema dell'interpretazione del rapporto fra arte e fascismo ricalca per molti versi quello più generale sul Ventennio. Per molto tempo l'argomento è rimasto tabù, liquidato attraverso quei semplicistici schematismi per cui l'arte dei regimi totalitari non può che essere propaganda e che in mancanza di libertà di opinione l'arte non potrebbe esprimersi in modo davvero qualificato. Poi, a partire dagli anni Settanta, qualcosa è cambiato. Analogamente a quanto faceva Renzo De Felice con il fascismo nella sua interezza, liberandolo di tanti luoghi comuni che gli costarono l'ostracismo dello stesso Partito Comunista in cui militava, molti studiosi d'arte hanno cominciato a guardare all'arte del Ventennio in un modo meno condizionato dalla condanna ideologica, riscontrando al suo interno fenomeni di grande interesse anche al di fuori del contesto nazionale.
Le conoscenze da allora acquisite convengono nel riconoscere una data spartiacque, quella del decennale della Marcia su Roma (1932), dopo la quale l'impegno del regime nelle cose dell'arte diventa molto più intenso e motivato, facendole partecipi di un progetto politico volto a costruire spiritualmente e materialmente una nuova Italia che ripristinasse in chiave moderna il primato di Roma antica innanzitutto, ma anche la gloria culturale del Rinascimento. Prima del 1932, malgrado fosse stato fortemente sollecitato in quella direzione dalla sua amante, Margherita Sarfatti, mente critica del gruppo Novecento che indica, insieme al parallelo Valori Plastici, la linea nazionale del retour à l'ordre, dopo la sbornia dell'Avanguardia, Mussolini si era dimostrato piuttosto renitente a concepire un'arte di regime, limitandosi a promuovere le attività che gli artisti organizzavano attraverso il sindacato fascista. In un primo momento il controllo del regime non comportò l'imposizione di temi e iconografie ufficiali e lo stesso Mussolini affermò: «Dichiaro che è lungi da me l'idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all'arte di Stato. L'arte rientra nella sfera dell'individuo». Infatti il Duce si affidò soprattutto alle opere di arte murale (pittura o mosaico), poiché erano vicine al gusto popolare e di facile accessibilità, essendo collocate in edifici pubblici. All'arte veniva, inoltre, affidato il compito di esaltare gli ideali del regime quali la forza, il coraggio, il patriottismo e in particolar modo di rafforzare il mito del Duce e la sua personalità.
Poi, come detto, le cose cambiano: l'Italia delle colonie in patria, Predappio nuova, Littoria, Sabaudia, Pontinia, Pomezia, Aprilia, Guidonia, Fertilia, Carbonia, Segezia, Mussolinia, Tresigallo e tante altre, delle città storiche sventrate e attrezzate di nuove infrastrutture, aveva la necessità di darsi un volto estetico che fosse coerente, sintomatico di quella che il fascismo ritiene essere un'epoca di resurrezione civile. In architettura ci riesce piuttosto efficacemente, adottando una lingua maestra, quella del razionalismo moderato e retorico di Marcello Piacentini, dietro il quale si muovono voci più innovative come quelle di Terragni, Libera, Pagano, Moretti, Gio Ponti, Cosenza, e tanti altri ancora. Ad affiancare l'architettura, è un'arte che affronta i muri delle costruzioni per mettersi a disposizione delle masse da indottrinare, con la luce di Mario Sironi, nello spirito più fascista di Mussolini, che diventa il faro per colleghi come Severini, Funi, Depero, coinvolti in una lunga serie di opere pubbliche in tutta Italia.
Ma l'arte del Ventennio non è solo grandi imprese di Stato, culminate nei lavori per la mai realizzata Esposizione Universale del 1942 a Roma. È anche promozione che porta ad affiancare l'internazionalismo della Biennale di Venezia con nuove grandi manifestazioni che vogliono superare i limiti delle mostre sindacali locali, come la Triennale di Milano, dedicata alle arti decorative secondo sviluppi che già intravedono la nascita del design industriale italiano, e la Quadriennale nazionale di Roma, diretta da Cipriano Efisio Oppo, nel cui contesto possono comodamente convivere le inclinazioni neo-barocche di Giorgio de Chirico e i toni espressionistici di Mafai o degli esponenti di «Corrente», il Realismo magico di Donghi e Francalancia e le invenzioni polimateriche di Prampolini. In scultura indica la strada più battuta l'arcaismo etruscheggiante di Arturo Martini, malgrado ritenga che la sua disciplina, come recita il titolo di un suo famoso saggio, sia ormai lingua morta. È però dietro il milanese Adolfo Wildt, folgorante visionario, che crescono i giovani destinati a lasciare maggiormente il segno negli anni a venire, Lucio Fontana e Fausto Melotti.
Il Futurismo, sotto l'impulso dell'accademizzato Marinetti, conosce una stagione di rilancio che vede i vecchi esponenti come Depero, apertosi felicemente alla produzione in serie, essere seguiti da più giovani esponenti come Fillia e il gruppo degli aeropittori. Fra Milano e la Como di Terragni ha modo di manifestarsi anche l'astrattismo geometrico di Mario Radice, Manlio Rho e Luigi Veronesi, smentendo il preconcetto secondo cui l'arte italiana di questi anni sarebbe stata solo figurativa e tradizionalista.
E poi ci sono grandi singoli che riescono a muoversi senza avvertire più di tanto la costrizione fascista, Morandi, Pirandello, De Pisis, Balla, il cui realismo fotografico pare anticipare la Pop Art. Non c'è dubbio, nulla di quello che è avvenuto nell'arte italiana fra il 1945 e il 1970 almeno sarebbe stato possibile prescindendo dal terreno fertile creatosi nel Ventennio fascista.
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