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«Lasciamo Prodi e teniamo falce e martello»

Il responsabile organizzativo del partito boccia la lettera aperta: «Carpita la buona fede dei firmatari con una iniziativa piccolo-borghese»

da Roma

«Noi siamo comunisti e vogliamo restarlo fino in fondo. Togliere falce e martello dal simbolo che ci rappresenta è un errore: lasciamo Prodi e teniamoci falce e martello». Gerardo Giannone è un operaio della Fiat di Pomigliano e membro del comitato centrale. Insieme a una sessantina di altri operai e lavoratori dirigenti del Pdci ha scritto due giorni fa una lettera aperta al segretario Oliviero Diliberto molto dura. Una sorta di cahiers de doléances per manifestare tutta la delusione di «operaie e operai comunisti» di fronte alle scelte del governo Prodi: una Finanziaria di lacrime e sangue, l’aumento per le spese militari, il buco nell’acqua sul fronte delle riforme, il dramma degli operai «lasciati morire» sul posto di lavoro come alla ThyssenKrupp di Torino. E poi il «nulla di fatto» contro il lavoro precario, lo stop a una nuova legge sulle unioni di fatto, l’attacco alle pensioni.
Gli autori della lettera, tutti membri del comitato centrale del Pdci, fanno notare che i 142 fra deputati e senatori della sinistra (Comunisti, Rifondazione, verdi e Sinistra democratica) «non hanno contato nulla rispetto a Dini e ai suoi 2 amici». Si dicono disposti a restare uniti ma per una «sinistra vera, anticapitalista, antiliberista che sappia essere realmente alternativa al Partito democratico». Dannoso e illogico poi che «nel nuovo simbolo della cosa rossa sia stata cancellata la falce e martello proprio quando i comunisti dovrebbero costituirne il 70-80 per cento dell’elettorato». Dunque si chiede a Diliberto di «riconsiderare il giudizio su Prodi e ritirare la delegazione dal governo» per non essere trasformati «in una dependance di sinistra del Pd».
La lettera aperta non è piaciuta per niente al responsabile dell’organizzazione del Pdci, Orazio Licandro, che prima di tutto ne minimizza il valore sostenendo che le firme sarebbero state raccolte «carpendo la buona fede» dei compagni che non avevano capito di cosa si trattasse». E poi le lamentele dovevano essere fatte nelle sedi opportune, ovvero negli organi di partito, dice Licandro, e non in una lettera aperta «come qualunque fighetto piccolo-borghese».
Ma Giannone e i suoi compagni non ci stanno. «Mi pare che Licandro non abbia rispetto per chi fa militanza da operaio e non da deputato - dice Giannone -. Mi sarebbe piaciuto lavare i panni sporchi in famiglia ma se non ci convocano e non ci lasciano parlare allora non ci resta che la lettera aperta». Lettera, assicura, che ha ricevuto centinaia di altre adesioni via mail.


«Questa non è una resa dei conti all’interno del partito - prosegue Giannone -. Noi siamo comunisti e vogliamo restarlo e, se si rinuncia a questo, allora vuol dire che chi lo fa vuole soltanto trovare il modo di conservare la poltrona. Noi comunque ci siamo stufati di fare i portatori d’acqua».

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