Lasseter: «Con i miei eroi ipnotizzo i bambini»

Raccontata da John Lasseter in persona, la ricetta dei successi Pixar sembra semplice: un quarto di Walt Disney «per il binomio cuore-humour che fa del risultato un capolavoro senza tempo»; un quarto di Chuck Jones, il genio di Warner Bros creatore e regista di Looney Tunes e company «per i tempi comici mai eguagliati da nessuno, i migliori della storia del cinema, che fanno ridere grandi e piccoli ancora oggi»; un quarto di Frank Capra, «perché al centro dei suoi film c’è il cuore» e un quarto di Hayao Miyazaki, «perché non ha pari nella capacità narrativa». Certo poi su maestri e fonti di ispirazione bisogna lavorarci, e parecchio: «Proiettiamo un film appena nato per almeno tre o quattro mesi in studio. Perché siamo i primi a giudicarlo, a capire se vale e a dirci sinceramente quel che ne pensiamo».
Lasseter, fondatore (con Steve Jobs, nel 1986) e direttore creativo del colosso dei film di animazione Pixar (e dal 2006 di Disney: se lo sarebbero immaginato quando alla fine degli anni Settanta lo licenziarono perché spingeva troppo per applicare l’informatica all’animazione?) è un guru anche se indossa una camicia di Cars che sembra hawaiana e ha conservato lo stesso faccione giovanile dello scout Russell di Up, uno dei suoi più grandi successi insieme a Nemo e alla saga di Toy Story. Pugno di ferro in guanto di velluto. Parla di cuore, emozione, bambini ipnotizzati dagli eroi creati insieme al suo team, ma tratta minuto per minuto il team medesimo come un mister prima dell’incontro decisivo: «Non salviamo mai i film in post produzione: devono essere già perfetti quando li giriamo. Paura del blocco creativo? No, è qualcosa che prende chi lavora in isolamento».
Lasseter, 54 anni, 5 figli, 2 Oscar e un Leone d’Oro alla carriera, è a Milano, invitato da «Meet The Media Guru», per l’apertura, domani, della mostra in anteprima europea Pixar. 25 anni di animazione" (al PAC fino al 14 febbraio 2012). Un luna park di disegni preparatori, modellini 3D, installazioni esclusive come lo Zoetrope e Artscape per spiegare come si conquista un pupo e il suo genitore, rapiti dall’irrisolvibile enigma «So che non esiste, eppure sembra così reale». «Quando facevo ancora corti per la Siggraph, negli anni Ottanta, roba che passava solo in tv, cominciammo a ricevere centinaia di chiamate. Erano genitori i cui figli si erano bloccati davanti a Tin Toy.

E non potrò mai dimenticare lo sguardo del primo ragazzino che vidi con il cowboy giocattolo di Woody di Toy Story stretto in mano, in un aereoporto di Dallas: l’impazienza di mostrarlo al padre. Ecco perché faccio il lavoro che faccio».

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