Il lato oscuro del Ramadan Ecco le moschee «fai-da-te»

Marco Morello

C’è la moschea di Forte Antenne, ai Parioli, la più grande dell’Europa Occidentale, nonché l’unica in Italia ad avere ottenuto lo statuto di ente morale, nella quale in questo inizio di Ramadan confluiscono migliaia di fedeli. E poi ci sono le «moschee fai-da-te», sparse nei quartieri periferici dove la comunità musulmana è più popolosa, e nelle quali pregano anche in gruppi da cento o duecento persone. In tanti subodorano la loro esistenza, ma solo in pochi sanno dove si trovano. Aprono, chiudono e cambiano con una velocità tale che è difficile tenerle sotto controllo. A sorvegliare il fenomeno ci provano i servizi segreti, svolgendo un’attività che rientra nell’ambito delle operazioni tese a scongiurare la minaccia integralista.
A Roma le «moschee non ufficiali» proliferano soprattutto nel quadrante Est della città. Esquilino, Casilino, Prenestino, Centocelle, sono queste le zone in cui hanno attecchito molte di loro. A metà tra tempio e casa, i luoghi (extra) dell’Islam della periferia romana si suddividono in due categorie. Da una parte ci sono garage, scantinati, magazzini riadattati, nonché le dimore di alcuni privati, tutti adibiti a sale di preghiera di fortuna, dove però l’affluenza sarebbe più contenuta e nel cui caso pesa la questione legata all’agibilità dei locali. E poi ci sono le associazioni culturali del mondo arabo che, per cinque volte al giorno, fungono anche da moschea - e qui il problema riguarda la destinazione d’uso - trasformandosi in centri di raccolta e di aggregazione della comunità presente sul territorio, frequentatissimi nell’orario di preghiera.
Sul sito Romamultietnica.it è disponibile un elenco delle «mosche fai-da-te». E basta dare una rapida occhiata alla lista per capire che c’è l’imbarazzo della scelta. Tra queste anche quella di Tor Pignattara, uno stanzone di trecento metri quadri che in passato ospitava un ristorante e al quale si accede passando per un lungo corridoio. Sulle pareti sono affisse alcune immagini che ritraggono i luoghi sacri della religione islamica. Da una parte, una fila di lavandini usati per le abluzioni. L’atmosfera è intima e, al contempo, solenne. Manca solo il muezzin, ma i fedeli – che in questo caso sono soprattutto bengalesi – arrivano comunque, a colpi di tre o quattro alla volta, finché il «tempio» non si riempie. Vengono in gran parte dai phone center e dagli alimentari etnici circostanti, dando vita a una sorta di processione. «La Grande Moschea ai Parioli è un luogo di culto molto importante – racconta Isham, egiziano trapiantato a Roma – ma non sempre è possibile andare lì a pregare, per tanti è troppo lontana, così bisogna arrangiarsi». A Roma e Provincia si contano 110mila musulmani e quello di doversi arrangiare come fa Isham è un problema che li riguarda tutti da vicino.
Fonti interne alla Coreis, la Comunità religiosa islamica, ribadiscono la necessità d’istituire delle moschee di quartiere, riconoscendo magari quelle che già ci sono e che espletano clandestinamente tale funzione. D’accordo Franco Pittau, coordinatore del Dossier sull’immigrazione della Caritas, che approfondisce i luoghi di preghiera delle diverse religioni: «I musulmani pregano cinque volte al giorno e non è che ogni volta debbano andare necessariamente in moschea, ma senz’altro servono luoghi semplici e funzionali in cui possano farlo in maniera dignitosa».
Da non sottovalutare l’aspetto relativo alla sicurezza. «Grazie al lavoro svolto dalla Grande Moschea e dal Comune - afferma il presidente degli Intellettuali mussulmani e consulente per l’immigrazione presso la Commissione affari esteri del Senato, Ahmad Gianpiero Vincenzo - oggi nella capitale esiste una rete di rapporti con le moschee non ufficiali, diversamente da quanto accade altrove, ma non basta». Preoccupa l’avanzare del fondamentalismo.

«Il problema non è solo di tipo urbanistico, ossia se e dove costruire nuove moschee - aggiunge - la questione, più che altro, è di sapere chi le gestisce, al fine di potere tenere sotto controllo la situazione ed evitare infiltrazioni da ambienti, diciamo così, non proprio amanti della democrazia».

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