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L'attività del re dell'e-commerce in Italia: affari per miliardi, 11 milioni di tasse

Per i gruppi dell'hi tech imposte sui redditi societari quasi mai oltre il 3%

L'attività del re dell'e-commerce in Italia: affari per miliardi, 11 milioni di tasse

Se c'è una caratteristica che i grandi gruppi dell'hi-tech condividono è l'allergia alle tasse. Il loro business globale si basa su brevetti e tecnologie i cui diritti possono essere affidati ai Paesi con legislazione fiscale più favorevole. Così, trasferendo ed attribuendo da una filiale all'altra costi e ricavi, riescono a ridurre l'imposizione a un livello che non è di solito superiore al 2-3% degli utili.

Uno degli studi più approfonditi sul tema, citato dal libro «Amazon dietro le quinte» di Martin Angioni, è stato condotto in Gran Bretagna da Tax Watch Uk, think tank investigativo in campo fiscale. L'indagine ha preso in considerazione l'attività nel Regno Unito di cinque colossi come Google, Facebook, Apple, Microsoft e Sun Micro nel periodo tra il 2012 e il 2017. Con ricavi stimati per 104 miliardi di sterline e utili per 29,8 miliardi i 5 gruppi hanno pagato tasse per 933 milioni.

Applicando l'aliquota fiscale media per le aziende locali avrebbero dovuto pagare 6,2 miliardi, con un risparmio dunque di 5,3. Se si tiene conto che la ricerca riguarda un solo Paese si può valutare quanto profitto i grandi gruppi traggano dalla loro capacità di pianificazione fiscale.

Da questo punto di vista Amazon è del tutto simile alle consorelle. Cuore della sua attività europea sono le società create in Lussemburgo e per le quali la società di Seattle a suo tempo ha concluso con l'amministrazione del Granducato un cosiddetto «tax ruling», un accordo preventivo sulla quantità di tasse che sarebbe stata chiamata a versare. Nel 2017, però, dopo un lungo procedimento, la Commissione europea ha concluso che l'accordo era illegittimo, rappresentava un aiuto di Stato, con effetti distorsivi sul mercato e sui possibili investimenti di Amazon in altri Paesi europei. La società è stata condannata a versare 250 milioni di tasse arretrate.

Nel 2015 il gruppo di Seattle ha aperto una partita Iva in Italia e negli altri Paesi europei in cui opera (prima di allora le compravendite venivano effettuate direttamente con il Lussemburgo) sanando con 100 milioni le pendenze pregresse con il Fisco della Penisola. «Oggi una parte dei ricavi, quelli legati alla compravendita di prodotti fisici, che è anche la parte meno redditizia del business, è in capo alle filiali dei vari Paesi» spiega Angioni. «I ricavi da commissioni della piattaforma e i servizi digitali, la parte più profittevole, vengono invece tassati in Lussemburgo».

Per scelta aziendale Amazon fornisce solo un dato aggregato a livello europeo e non cifre sulle dimensioni del business nei vari Paesi. Non c'è modo quindi di conoscere con precisione quanto venda in Italia. Stime di operatori della grande distribuzione situano il suo giro d'affari annuo nella Penisola intorno ai 4/5 miliardi di euro. Di fronte a questa montagna di ricavi le tasse sul reddito pagate dalle 9 società a responsabilità limitata del gruppo (dai servizi alla logistica) attive nel nostro Paese sono molto più ridotte: in tutto 11 milioni.

La sproporzione, non c'è dubbio, salta all'occhio. Un portavoce di Amazon la spiega così: «L'imposta sulle società si basa sui profitti, non sui ricavi, e i nostri profitti sono rimasti bassi sia perché il retail è un business che ha margini ridotti sia per i continui investimenti che facciamo in Italia: dal 2010, oltre 4 miliardi con circa 7.

000 posti di lavoro creati a tempo indeterminato».

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