Con Laudisio la materia si fa gioco dell’arte

Esposti gli ultimi lavori del pittore pugliese che richiamano l’arte impura di Yves Klein e i dialoghi «metafisici» di Carmelo Bene

Fedora Franzè

Negli spazi del foyer della sala Umberto, ormai avvezzi a ospitare opere d’arte, arrivano i lavori del pittore e incisore pugliese, ma romano d’adozione, Paolo Laudisa. Difficile definire la sua produzione secondo le categorie comuni, che distinguono tra figurazione ed astrattismo, o che fanno riferimento ai movimenti artistici contemporanei. Lo stesso pittore non ama riconoscersi in un genere, anzi, si muove coscientemente al limitare dei territori. Le opere in mostra si propongono a un primo impatto per la loro intensità cromatica, per le superfici pulite su cui l’artista incastona cammei in polvere di marmo o in vetrofusione, ad accompagnare le figure di sapore organico che vi fluttuano dentro. In un secondo tempo sono quelle forme ad attirare lo sguardo, anzi a calamitarlo nella loro silenziosa dimensione sospesa, simili a pianeti dalla millenaria e insondabile esistenza.
Si può tentare di scovare profili di danzatrici, code di comete, crateri, stelle stilizzate. Di trovare la piccola chiave di metallo inserita nel più grande dei dipinti, tutti riferimenti con cui Laudisa gioca, nei titoli (La chiave di tutto) e nella percezione dello spettatore, alludendo a una realtà che però è tanto coinvolta quanto fittizia.
L’occasione espositiva ha dato modo al pittore di ricordare un conterraneo che al teatro ha dedicato la sua vita, Carmelo Bene, modello di libertà creativa, e che ha costituito un significativo punto di riferimento culturale in primo luogo per l'eclatante insofferenza ai generi codificati. Pensando a Bene la pittura di Paolo Laudisa appare ancora più sobria, a dispetto della vivacità dei toni. La meditata distanza siderale dai fatti affannosi della quotidianità, dal suo stesso passato, di cui annega tracce minuscole dentro le opere attuali, parla allo spettatore sussurrando.
La prosa barocca e parossistica dell’uno, che dilatava e amplificava per trasformare la parola in puro suono, e l’accorto sottovoce dell’altro danno luogo ad uno spaesato incontro, che nella memoria di ciascuno e nello spazio deputato alla rappresentazione scenica, diventa un dialogo muto di parole immaginate e immagini che le hanno assimilate. Allo stesso risultato estetico assoluto i due arrivano da strade opposte.
Nel percorso del pittore l’uso frequente del monocromo ispirato a Yves Klein è sempre stato «impuro». Le tele avevano, e hanno oggi, una vibrazione interna che moltiplica i piani: lo stesso colore, dato con maggiore o minore corpo, ritaglia spazi quasi geometrici d’imprecisa distanza, creando quinte da cui le forme protagoniste arrivano o verso le quali si muovono, di un movimento lento e inerziale, senza gravità.


Negli ultimi lavori, tuttavia, si è ridotto il peso delle «intrusioni», a favore di una pittura capace di esprimere pulsioni e storie attraverso il proprio specifico linguaggio, assorbendo e restituendo gli apporti ready-made, o eseguiti in altra tecnica, dopo aver loro donato la propria natura.

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