San Giovanni Teatino è a un passo da uno svincolo della A14, in Abruzzo, provincia di Chieti, dodicimila e seicento abitanti, viaggiando verso est si arriva sull’Adriatico, direzione Francavilla al Mare. È qui che l’Ikea sta piazzando uno dei suoi mega negozi. Dovrebbe aprire questa estate. In ballo ci sono 200 posti. Niente dirigenti. Questi arriveranno da altri punti vendita Ikea. Serve chi vende, chi sta alla cassa, magazzinieri, falegnami, facchini. Quanti sono i candidati? Più di trentamila. Tanti laureati.
Più di qualcuno si è stupito, soprattutto per i laureati. È come se questa fosse una brutta fotografia dell’Italia. C’è la crisi. C’è bisogno di lavoro e perfino chi ha un titolo di studio alto si accontenta di un posto da commessa o magazziniere (e viceversa). La conclusione è che non stiamo dando un futuro a quella che dovrebbe essere la classe dirigente del futuro. Li teniamo nel sottoscala a montare mobili. È uno spreco di risorse, di cultura, di soldi pubblici (il costo delle università) e risparmi privati, quelli dei genitori che magari s’indebitano per far laureare i figli. Tutto questo è vero, ma non ha nulla a che fare con l’Ikea e con i trentamila curricula spediti.
È vero perché in Italia da vent’anni i giovani, alcuni dei quali ormai maturi quarantenni, soffrono a trovare spazio nel mercato del lavoro. La responsabilità è di un sistema paludoso che frena chi sta fuori e rende la mobilità sociale faticosa. L’università assomiglia sempre più spesso a una fabbrica di disoccupati, precari e outsiders. Tutte le riforme che sperano di legare studio e lavoro sono naufragate per timori ideologici e interessi baronali. Ma anche questo non ha nulla a che fare con l’Ikea.
Quello che il caso Ikea racconta è un’altra cosa. Quando l’anno scorso gli svedesi hanno aperto a Catania le domande erano 47.312, età media 30 anni e il 22 per cento erano laureati. Non è vero quindi che i presunti bamboccioni preferiscano stare a casa ad aspettare che il dio delle raccomandazioni li strappi dalla cameretta dove sono cresciuti. Non sono infatti bamboccioni. Non si aspettano neppure troppo dallo Stato. Un tempo l’unico rifugio dei «dottori» disoccupati era il concorso pubblico. Le grandi infornate, quasi sempre clientelari, tipiche degli anni ’70 e ’80. Tutti assunti in comuni, province, regioni, ministeri e così la politica non solo comprava voti ma conteneva le proteste sociali. L’aria grigia intorno al terrorismo è stata sconfitta anche così: lavoro in cambio di pace. E il posto statale come (ricco) salario di cittadinanza. È da tempo che tutto questo, per fortuna, non è più possibile. Tutto quello che c’era da sprecare è stato sprecato.
L’Ikea non è un posto per tutta la vita. Chi manda il curriculum è senza lavoro e vuole guadagnare. Anche se è laureato. Questo non significa restare prigioniero lì, nella casa smontabile. Non è una resa, ma un modo per andare avanti. Non c’è vergogna. Non c’è ingiustizia. C’è solo l’intelligenza di capire che una laurea non ti assicura nulla, che non serve chiudere le porte e il futuro non è ancora scritto. Mandare un curriculum all’Ikea è una scelta di responsabilità. Intanto ci provo, senza rinunciare a cercare qualcosa di meglio. Lo stipendio normale al mobilificio non arriva a mille euro se è a tempo pieno. È di quasi cinquecento se lavori part time. Per quale motivo, allora, un laureato non dovrebbe lavorare mezza giornata all’Ikea? È un ragionamento di buon senso, ma a quanto pare sembra scandaloso. I lavori si cercano, si trovano e si inventano. Non conta il pezzo di carta, ma quello che sai fare. Qui, in questa pagina, si racconta anche la storia di Marika De Chiara, che a 24 anni, laureata in lettere, attrice professionista certo, ma che ha sbancato il web con Ostia beach, la sabbia brucia. Precaria.
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