Caro Granzotto, per lIstat i consumi delle famiglie sono diminuiti e la spesa per famiglia si aggira sui 2.500 euro (non si sa se comprensivi della quarta settimana alla quale, come ci raccontano, molti non arrivano). E il lavoro, mancando, fa lievitare la disoccupazione, specie giovanile. Eppure ogni fine settimana e ogni «ponte», nonostante il costo del carburante, sono santificati con esodi biblici. Nei ristoranti devi prenotare. Bar e locali della movida il sabato e la domenica straboccano e non è che il mojito te lo regalino. Ma allora, tutti questi giovani disoccupati non stanno poi così male. Insomma: manca il lavoro o la voglia i lavorare?
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Il lavoro cè, caro Rocca, è ovvio. Però è lavoro che non piace, lavoro considerato disonorevole per chi ha in tasca il «pezzo di carta», sia esso la laurea (magari in Scienza delle comunicazioni, la più attiva fabbrica di disoccupati) o il diploma. I lavori che piacciono, che si addicono ai giovani di belle speranze sono due: il posto fisso, statale, tale da assicurare un impiego continuo fino alla pensione, lo stipendio con gli scatti, le ferie pagate, i ponti, la possibilità di chattare col computer aziendale, i permessi e tutto ciò indipendentemente dallimpegno messo nellespletare i compiti assegnati dal capufficio. Il secondo è una attività rampante, una bella scrivania e la Porsche come benefit in una rinomata finanziaria, ma va bene anche una multinazionale. Un luogo di lavoro che odori di soldi e dove far soldi. Tanti e subito. Purtroppo nel primo caso bisogna vincere i concorsi, dove per dieci posti si presentano in settecentomila. Nel secondo, non cè richiesta. Solo posti in piedi. Però, siccome il 50 euri per lo sballo del sabato sera lo si rimedia comunque; siccome vitto, alloggio, lavatura e stiratura sono garantiti da babbo e mammà, quel genere di disoccupato non si pone problemi. Attende pazientemente che il miracolo si compia.
Lei, caro Rocca, la conosce la storia della monda del riso? Alla fine degli anni Cinquanta le coscienze civili la liquidarono come lavoro indegno, da schiavi, anzi, da schiave. Bisognava, forse, chiedere alle mondine cose ne pensassero, ma fatto sta che fu cancellato dalla lista delle occupazioni stagionali a favore del sublime diserbante. Bene, qui da me, in campagna, le aziende che producono riso biologicamente corretto sono tornate a far ricorso alle mondine, anzi, ai mondini. Cinesi. Arrivano alle cinque e mezza, alle sei attaccano e non smettono che al tramonto. Gli agricoltori ne sono entusiasti: un po cari, ma piantumano e mondano le risaie alla perfezione. In Sardegna, invece, sono arrivati i tosatori neozelandesi. Tosano una pecora in meno di un minuto. E giungono a tosarne a centinaia nellarco di una giornata. Sono richiestissimi non solo perché poco esosi, ma per il fatto che non cè alternativa. Il tosatore non lo vuole fare nessuno. Nessunissimo ai ritmi neozelandesi. Ora io non dico che fare il mondino o il tosatore sia il massimo della vita, ma tralasciando i cinesi che del lavoro hanno un concetto che a noi fa rabbrividire, i neozelandesi ci arrivano dagli antipodi per tosar pecore sarde. Occupazione che per loro, dunque, non è da buttar via, come invece la buttiamo via noi. E pensare che negli anni 60 e 70 migliaia dei nostri giovani «bene» migrarono in Inghilterra per unirsi alle schiere dei raccoglitori di fragole, che non è come andare a un pranzo di gala. Adesso, ci vanno solo (e a spese dei genitori) per fare gli stages in qualche banca daffari. Sognando tutti di diventare, in fretta (e senza fatica, mi raccomando) dei Rockefeller.
Il lavoro cè ma fra i giovani non è di moda
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