Lazzaro è tornato ma nessuno lo ascolta

Mi prende la malinconia alla lettura di un testo veramente egregio, Il ritorno di Lazzaro di Jean Cayrol (Medusa, pagg. 80, euro 11). Nato nel 1911, Cayrol è stato promettente poeta fino a quando la sua carriera letteraria fu tagliata in due dalla deportazione a Mathausen.
Tre anni di quell’inferno - di cui è stato uno dei più lucidi e meno corrivi testimoni - lo restituirono alla vita come un sopravvissuto. Alle ribalte letterarie preferì le penombre della casa editrice Seuil, di cui per decenni è stato uno dei responsabili.
La sua generosità lo porta a immaginare, dopo la devastazione, una letteratura nuova, nata dall’universo concentrazionario, consapevole dell’inferno che porta dentro e perciò pura, inconciliante.
Immagina anche una sorta di grande antologia del mondo concentrazionario, le cui radici penetrano nell’antichità per attraversare, si può dire, tutti i secoli della nostra storia.
Per questo movimento artistico-letterario Cayrol conia l’aggettivo «lazzariano», a intendere un’arte del ritorno dall’inferno, arte di uomini tagliati in due da un trauma definitivo e consapevoli del miracolo che li vuole, oggi, testimoni a nome di altri, i più, meno fortunati.
«In effetti» scrive Cayrol «questa arte misteriosa, sottile, ancora furtiva può diventare, se continuiamo a frequentare i carnai di ogni specie \, l’unica arte inseparabile dalla nostra precaria condizione di uomini...».
Cayrol, che ci ha lasciato tre anni fa, era giunto a sfiorare l’essenza del mondo concentrazionario. Aveva capito molte cose. Per esempio che la letteratura del nuovo tempo (nuovo e sciagurato) non avrebbe più avuto un mondo di riferimento condiviso, che le parole non sarebbero state più in grado di comunicare l’irripetibile esperienza umana.
Quello che sottovalutò fu la capacità della prigionia di riprodursi indefinitamente. Sognò un tempo di consapevolezza - quella dei miracolati, dei resuscitati -, mentre la privazione della libertà si moltiplicò più in fretta della consapevolezza, contaminando le generazioni nuove e corrompendo la riconquistata libertà politica in una vuota agitazione, o esibizione.
Tanto che, a saper leggere, l’universo concentrazionario si trova assai meno nei grandi autori (pensiamo al nostro Primo Levi) che vi si sono applicati che non nell’ansia di finire sotto la bandiera di qualche ideologia prima e, poi, di qualche moda, o griffe.


Più che una nuova coscienza gli orrori di un tempo hanno generato le nuove tribù selvagge, portatrici di una logica tribale contro la quale il nostro mondo e la nostra cultura hanno assai meno mezzi di cinquant’anni fa.

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