La Lega liberista si è trasformata in una Balena verde

Sarà vero che la Lega, da liberista che era, si sarebbe ormai trasformata in un partito d’ispirazione laburista, secondo la definizione del ministro Luca Zaia, neogovernatore del Veneto? L’ipotesi non è assurda.
Nella prima metà degli anni Novanta - quando la politica economica era elaborata da Giancarlo «Mimmo» Pagliarini, che passava le giornate a studiare come tagliare la spesa pubblica - il movimento di Bossi seguiva logiche liberali, all’insegna del connubio reaganiano «privatizzazioni e liberalizzazioni». Da allora, però, molto è mutato e oggi la dirigenza leghista appare ispirata da preoccupazioni assai diverse.
In altre parole è lontana la Lega che gridava «basta tasse, basta Roma!» e che preannunciava la rivolta fiscale, grazie pure al sostegno ideologico garantito dal professor Gianfranco Miglio. Sono egualmente remoti gli anni in cui la simbologia del movimento opponeva il Nord industrioso delle fabbrichette e dell’imprenditoria diffusa a un Sud che sopravvive grazie a pensioni d’anzianità e impieghi al Catasto. Il venir meno della spinta nordista (al centro del programma leghista attuale non c’è più l’opposizione con i meridionali, ma quella con gli immigrati) ha finito per modificare gli stessi progetti economici.
Non è di poco conto il fatto che la Lega sia divenuta forza di governo, amministrando a Roma e negli enti locali. E siccome è raro che qualcuno tagli il ramo dell’albero su cui è seduto, non sorprende che il ceto politico leghista non intenda ridurre la quota di ricchezza che lo Stato controlla.
Va pure tenuto presente che la Lega attuale, elettoralmente vincente, è in larga misura figlia di quella che - dopo il grande risultato ottenuto nel 1996 su una piattaforma secessionista - è stata ridimensionata dai successivi appuntamenti elettorali, molto deludenti. Per un decennio (le cose cambiano solo nel 2008), la Lega ha viaggiato sotto il 5% ed è in quel periodo che essa ha elaborato una strategia assistenziale, orientata a ottenere il sostegno dei ceti più spaventati e meno competitivi. È da qui, in particolare, che emerge quel movimento che parla il linguaggio di Bertinotti e Tremonti quando avversa la globalizzazione, poiché è incapace di vedere nei mercati aperti un’opportunità per le imprese. Senza rendersi conto che il Veneto di Luxottica e della Benetton non esisterebbe senza l’economia globale e senza quella delocalizzazione che porta tanti imprenditori a investire in Romania o Bulgaria.
Persi i contatti con il Settentrione più produttivo, la Lega ha assunto tratti conservatori, neo-democristiani e populisti. In questo senso, non è un caso se essa ormai presta un’attenzione molto forte - anche «simbolica» - a un ministero quale è quello dell’Agricoltura: sposando pure una strategia da reazionari di sinistra sulla questione degli Ogm (dove le sue posizioni non differiscono da quelle di Alfonso Pecoraro Scanio, Gianni Alemanno e Carlo Petrini).
Senza dubbio, da lunedì lo scenario è ancora differente. Una Lega in più province sopra il 30 per cento che restasse operaia e contadina sarebbe destinata a declinare, rifiutandosi di entrare in sintonia con la società contemporanea. Per giunta, adesso è chiamata a governare il Piemonte e soprattutto il Veneto: e - come insegna il caso di Lecco - quando amministri male gli elettori ti puniscono.


Va aggiunto che, ora che il limite di sopportazione di fronte al prelievo fiscale è stato superato e il fastidio verso la casta è a livelli altissimi, non sarebbe sorprendente se la Lega tornasse agli slogan delle origini. Quello che adesso le si chiede, però, è di passare dalle parole ai fatti.

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