L'egemonia culturale del "Pol-cor"

L'egemonia culturale del "Pol-cor"

Perché leggere un libro sul politicamente corretto? Per rimanere nella propria filter bubble come si dice oggi: insomma per leggere ciò che ci si vuole sentir dire. In fondo a molti di noi è bastato Tom Wolfe e il suo Radical Chic, condito da un Sergio Ricossa, che in tempi non sospetti ci hanno spiegato che un certo conformismo culturale era proprio di ricche classi sociali, che evidentemente dovevano farsi perdonare qualcosa. Poi prendi in mano il nuovo libro di Eugenio Capozzi, che si intitola senza tanti fronzoli, Politicamente corretto (Marsilio) e capisci che una sistematizzazione delle proprie intuizioni era necessaria. Più che necessaria. Il libro è davvero bellissimo.

L'autore parte dalla nostra domanda e si chiede più o meno per quale motivo si debba parlare ancora del «polcor» se i suoi limiti oggi sono più evidenti che mai. La prima ragione è di tipo metodologico: lo scienziato sociale non può non interrogarsi su un fenomeno che è durato tanto a lungo e che ha goduto di tanto successo. Ma «la seconda è di carattere ideologico, più insidiosa: spesso quando si da per scontata la critica ad alcuni aspetti di quella retorica, quando essa appare screditata dal suo stesso strapotere, dal suo moralismo straripante, in realtà non si fa altro che perpetuarne la sua egemonia, la sua centralità come se essa fosse un dato naturale». Dunque il punto cruciale è studiare il «polcor» in chiave storica. La tesi di fondo di Capozzi è che «la retorica politicamente corretta con la sua impostazione di catechismo sociale e la sua strutturale tendenza alla censura non è una degenerazione del linguaggio, un tic del discorso pubblico, o una moda delle classi colte... - rappresenta l'espressione di una ideologia impostasi in occidente nell'ultimo mezzo secolo, paradossalmente mentre il luogo comune dominante sosteneva la morte delle ideologie». Fantastico. E l'Autore ripercorre questo filo ideologico, in cui a suo avviso sono caduti anche molti liberali, che sotto le mentite spoglie del progressismo, intende una «marcia verso la perfezione che deve essere guidata attraverso un percorso politico, secondo un programma ideato e gestito da un leader o un partito, coaudiuvato da un ceto intellettuale organico». Tratto comune è combattere le disuguaglianze e ingiustizie ereditate dal passato per condurci tutti verso un futuro radioso. Già sentito. È così che l'Occidente risulta sempre colpevole, così nascono i miti del multiculturalismo, fino ad arrivare all'irrilevanza dell'Uomo, alle nostro follie ambientaliste, all'Utopia (come lo chiama il nostro) dell'antiumanesimo ambientalista.

PS. Un affezionato lettore, di sinistra, mi ha scritto che dove lavora lui, nel suo ristorante, dove fa il cameriere, il pensiero politicamente corretto è quello di Salvini non certo quello dei «buonisti» che vogliono accogliere. Dunque, mi incalza, smettila di parlare di pensiero unico: in fondo esso è il vostro. Può darsi. Ma il virus «polcor» è più pernicioso.

Esso non è sconfitto dalla tachipirina che abbassa la febbre, e ci fa essere istintivamente irritati nei confronti di chi vuole arrivare qui senza regole. Il virus è quello che ci impedisce di dire che ci sono culture diverse e che la nostra è la più liberale e dunque migliore.

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