È notizia di questi giorni, apparsa sulla stampa specializzata, e quindi un po' in sordina, che in base ad una sentenza della Corte di Giustizia europea le banche dovranno restituire allo Stato italiano la bellezza di 2,76 miliardi di euro per facilitazioni fiscali concesse con una legge varata nel 1998 e che ha avuto effetto per tre anni, considerata ora illegittima in base ai principi che regolano la «par condicio» fra imprenditori all'interno degli stati e le banche dei vari stati europei.
In base a questa legge, giustamente ora considerata distorsiva della libera concorrenza, le banche che effettuassero operazioni di ristrutturazione aziendale (fusioni, concentrazioni ecc.) per i cinque anni successivi anziché pagare all'erario l'imposta con la normale aliquota di allora del 34% (ora 33%) avrebbero dovuto versare soltanto il 12,5%, cioè poco più di un terzo di quello che pagano gli altri imprenditori non-bancari. Inutile dire che la misura trovò ampio consenso nel settore, tant'è che furono effettuate, pare, ben 76 operazioni di concentrazione. Ora, giova ricordare che nel 1998 si avvicendarono due governi di sicuro colore politico, quello diessino, e cioè il governo D'Alema sostituito nell'ottobre di quell'anno dal governo Amato e che la legge in questione è la 461 del 23 dicembre 1998. Sarebbe interessante andare a indagare chi furono i gruppi bancari favoriti dalla legge in questione e per quale motivo. Ma questo compito spetta ad altri; a me comune e tartassata cittadina la consolazione di qualche facile riflessione.
I 2,76 miliardi di euro equivalgono a circa 5.550 miliardi delle vecchie lire che vengono ora restituiti con valore dimezzato. È stata necessaria una sentenza europea per scoprire la nefandezza, e se a questo serve l'Europa allora ben venga, almeno in certi casi.
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