Le leggi della politica secondo Montanelli

Esce la versione illustrata del classico dell'Indro storico Dalla fondazione alla caduta dell'Urbe c'è molto da imparare

Le leggi della politica secondo Montanelli

«Mai città al mondo ebbe più meravigliosa avventura. La sua storia è talmente grande da far sembrare piccolissimi anche i giganteschi delitti di cui è disseminata. Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo: di avere per capitale una città sproporzionata, come nome e passato, alla modestia di un popolo che, quando grida Forza Roma!, allude soltanto a una squadra di calcio». Un giudizio durissimo che potrebbe stare in calce a un articolo scritto ieri. Invece è la frase finale della Storia di Roma (Rizzoli, pagg. 544, euro 26) di Indro Montanelli, che torna in versione illustrata. Un libro geniale, per numerosi motivi. Per la prima volta la Storia diventava grande divulgazione a opera di una delle migliori penne del XX secolo. Era il 1957 e il calcio d'inizio della Storia d'Italia scritta insieme con Roberto Gervaso e Mario Cervi. Un successo colossale e non solo per il taglio felicemente discorsivo. Ad esempio fu la Storia d'Italia a spezzare un tabù e definire, in anticipo rispetto agli (...)

(...) accademici, il conflitto tra Repubblica di Salò e partigiani col suo nome: guerra civile.

Torniamo a Roma. Il racconto di Montanelli è due volte avvincente. Non c'è solo la «meravigliosa avventura» di un rozzo villaggio divenuto Capitale del mondo. Ci sono anche le leggi eterne della politica che Montanelli individua nel cuore degli avvenimenti. In questo appartiene a una tradizione tutta italiana. Per citare modelli illustri, Machiavelli scelse la Storia di Roma per scrivere il suo capolavoro, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio perché nella storia di Roma c'è tutto quello che sarebbe accaduto dopo. L'Urbe fu il laboratorio della Repubblica e dell'Impero. Fu il laboratorio della «lotta di classe» e di una cultura capace di integrare senza farsi sopraffare. Almeno fino a un certo punto.

Quali sono dunque le leggi della politica che si possono desumere dalla Storia di Roma? Quando spiega l'aggressività militare della Roma di Tarquinio il Superbo, che si era fatto strada a colpi di pugnale, Montanelli chiosa: «I successi esterni servono molte volte a mascherare la debolezza interna d'un regime». Avete mai pensato che gli eroi esemplari abbondano soprattutto tra i perdenti? Le sconfitte subite a opera dell'etrusco Porsenna furono nascoste da una serie di imprese leggendarie di uomini straordinari come Muzio Scevola e Orazio Coclite: «La loro esaltazione costituisce uno dei primi esempi di propaganda di guerra. Quando un paese subisce una disfatta, inventa o esagera dei gloriosi episodi su cui richiamare l'attenzione dei contemporanei e dei posteri». Dall'alleanza di Roma con la Lega latina, del 493 avanti Cristo, terminata con la distruzione di Veio, si trae invece questa lezione: «Da allora le alleanze fra gli Stati si son continuate a stipulare col proposito di farle durare finché la posizione del cielo e della terra rimanga la stessa». A distanza di pochi anni, uno dei contraenti fa una brutta fine per colpa dell'ex alleato: «Ma, impassibili, i diplomatici insistono a usare quella formula, o altra equivalente, e i popoli a crederci».

Quando fu instaurata la Repubblica, cambiarono gli schieramenti interni. Gli aristocratici si schierarono con «quei ricconi che in fondo, come tutti i borghesi di tutti i tempi, non domandavano di meglio che di entrare a far parte dell'aristocrazia, cioè del Senato». L'espansione romana è dovuta alla stabilità politica delle classi alte, conservatrici ma dotate di sale in zucca: «Non si vergognavano di difendere apertamente i propri interessi di casta e non fingevano d'amoreggiare con le sinistre come hanno fatto tanti principi e industriali». Inoltre anteponevano il bene della patria ai propri privilegi. Roma «portò alla più alta espressione il concetto di Stato, di cui fu praticamente l'inventrice, e lo poggiò su cinque pilastri che tuttora lo reggono: il Prefetto, il Giudice, il Gendarme, il Codice e l'Agente delle tasse». Con le Dodici Tavole dei decemviri, i romani separarono «il diritto civile da quello divino» e addio teocrazia.

La decadenza è messa in relazione con il boom economico dovuto all'allargamento dei mercati: «Si cominciò a formare una nuova borghesia di trafficanti e di appaltatori. I costumi si addolcirono e ammollirono. Sorse quella che oggi si chiamerebbe una social life con salotti intellettuali e progressisti. La fede negli dei si indebolì come quella nella democrazia». Fu da quei salotti che si prepararono le rivoluzioni che affliggeranno Roma. La rivoluzione «contrariamente a quel che si crede, non nasce mai nelle classi proletarie, che poi le prestano la mano d'opera; ma in quelle alte, aristocratiche e borghesi, che poi ne fanno le spese. Essa è sempre, più o meno, una forma di suicidio». Trattando le vicende dei Gracchi, Montanelli scrive che i «progressisti, di alta estrazione, nobile o borghese che fosse, non sapevano sfuggire, allora come ora, a una contraddizione fra abitudini di vita raffinate e sofisticate e atteggiamenti politici populisti e piazzaioli».

Potremmo proseguire. Ma finiremmo col riscrivere il libro e privare il lettore del piacere di scoprire le perle di Indro. Ecco le sue parole sulla caduta di Roma: «L'Urbe fu caput mundi, capitale del mondo, finché i suoi abitanti seppero poche cose e furono abbastanza ingenui da credere in quelle, leggendarie, che avevano loro insegnato i babbi e i magistri; finché furono convinti di essere i discendenti di Enea, di avere nelle loro vene sangue divino e di essere unti del Signore anche se a quei tempi si chiamava Giove.

Fu quando cominciarono a dubitarne che il loro Impero andò in frantumi e il caput mundi divenne una colonia». Con una piccola parafrasi questa analisi potrebbe diventare anche l'epitaffio dell'Europa decadente di oggi, in piena crisi d'identità.

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