Leonka e clandestini, la giustizia al contrario

«Sono qui per lo sgombero». «E noi non ce ne andiamo». «Va bene. Grazie e arrivederci». É finito così l’ennesimo tentativo (il numero 26 della serie, per l’esattezza) di sgombero del centro sociale «Leoncavallo» da parte dell’ufficiale giudiziario: neanche ieri il funzionario aveva l’appoggio delle forze dell’ordine, e così il tentativo di porre fine all’occupazione abusiva del vecchio stabile di via Watteau di proprietà della famiglia Cabassi è finito in niente, come tutti quelli precedenti. E come, verosimilmente, il prossimo sfratto fissato per il 28 gennaio.
Ma non è stato solo lo sgombero-farsa del «Leoncavallo» l’unico episodio della giornata a segnalare la distanza sempre più marcata tra le istituzioni e i diritti della cittadinanza. Il Tar, con una sentenza clamorosa, ha ordinato il rinnovo del permesso di soggiorno per un immigrato maghrebino indagato e condannato per spaccio di droga: secondo i giudici del tribunale amministrativo, non c’è alcuna prova che l’uomo avesse la consapevolezza di quel che faceva, ovvero «quando ha commesso i reati non era in grado di conoscere le gravi conseguenze derivanti dalla propria condotta».

E intanto si ritrova isolato e sotto accusa il questore Marangoni, colpevole di avere annunciato l’apertura di una inchiesta a carico del medico che ha agevolato la fuga di uno degli immigrati accampati sulla torre di via Imbonati. Una messa in scena, sospetta la polizia. Ma le opposizioni lo accusano di «violare i diritti dell’uomo».

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