La Silvio Berlusconi Editore pubblica un libro fondamentale per comprendere un mondo in cui alta tecnologia e politica vanno simbioticamente unendosi: La repubblica tecnologica di Alexander Karp, amministratore delegato di Palantir Technologies. Un essenziale trattato di nuova teoria politica in cui tecnologia, libertà, cultura e necessità di razionalizzazione dei processi governativi si ibridano. Programmatico il sottotitolo del libro, scritto a quattro mani, o meglio a dire emerso dopo colloqui lunghi dieci anni, con il direttore corporate della stessa Palantir, Nicholas W. Zamiska, «come l'alleanza con la Silicon Valley plasmerà il futuro dell'Occidente». Karp, come ricorda Federico Rampini nella sua pregevole prefazione, la quale opera da contestualizzazione socio-biografica di Karp, nonché del ruolo e delle funzioni di Palantir e delle idee che muovono la nuova Silicon Valley ascesa al cospetto di Donald Trump, è una figura affascinante e controversa. Schietto, al limite del provocatorio, dottorato in teoria sociale a Francoforte sotto la supervisione di Karola Brede, un orizzonte filosofico debitore di Talcott Parsons, perno della sua tesi di dottorato, Isaiah Berlin, Vilfredo Pareto, Leo Strauss, René Girard, Sant'Agostino, pensatori che sovente punteggiano le lettere inviate agli azionisti, Karp si inserisce in quella tradizione culturale americana in cui l'imprenditore, assieme all'ingegnere e al filosofo, è considerato una potenziale guida per spezzare la stagnazione.
Palantir, ormai, spesso lodata dallo stesso Trump, è al centro del governo americano. Il gigante di analisi dei dati e di sicurezza, fondato nel 2003 da Peter Thiel, Joe Lonsdale, dallo stesso Karp e altri, è una realtà imprescindibile nei settori di intelligence e di difesa, e non più solo americani. L'idea che muove Karp è tanto semplice quanto radicale: la Silicon Valley si è smarrita. Ha perso la via, e nell'incipit dal sapore dantesco si snuda al lettore il nucleo essenziale di quanto si troverà nel corpo del testo. La Silicon Valley si è trasformata in un paradiso plastico di venture capitalist, programmatori, informatici, ingegneri la cui unica preoccupazione è puramente superficiale, consumeristica, legata non a una innovazione reale ma solo alla ripetitiva e ottusa modellazione di algoritmi per vendere prodotti.
Nelle parole di Karp si coglie l'eco di quei timori già diffusi decenni fa da James Burnham, autore de La rivoluzione manageriale e studioso di Machiavelli: secondo Burnham, il capitalismo non sarebbe stato sconfitto tanto dalla lotta di classe marxista quanto dai processi di iper-specializzazione burocratica che avrebbero finito per sdilinquire qualunque innovazione. Gli imprenditori, gli innovatori, sarebbero divenuti preda di una febbre burocratica, finendo assoggettati al nuovo management amministrativo. La stessa Silicon Valley, nella prospettiva di Karp, appare ormai come un insieme ingrigito di falsa innovazione ombelicalmente ripiegata su modelli aziendali e produttivi iper-burocratizzati.
La repubblica tecnologica immaginata da Karp è, invece, epifanicamente protesa al recupero della missione esistenziale originaria della Silicon Valley, la quale, come hanno notato storici della valle del silicio come Margaret O'Mara, in The Code, o Johnny Ryan, in Storia di Internet e il futuro digitale, è effettivamente nata all'ombra delle armi nucleari': nonostante per decenni, le grandi società del Tech e le start-up abbiano coltivato una visione quasi hippie, la Silicon Valley è nata grazie ai massicci finanziamenti del Dipartimento della difesa e l'innovazione tecnologica stessa, da sempre, è servente anche, se non soprattutto, esigenze di matrice militare.
I grandi innovatori, da Oppenheimer a Licklider, scrive Karp, si sono dovuti confrontare con il linguaggio della forza, per quanto questa lezione possa risultare una pillola amara.
Dettagliando la commistione tra sfera pubblica, con le sue esigenze sovrane, e il mondo privato dell'imprenditoria, Karp analizza quel singolare ircocervo rappresentato dalla figura dello Stato innovatore, per come inteso dall'economista Mariana Mazzucato: non c'è dubbio alcuno però che il Ceo di Palantir ne riveda il paradigma saliente, delineando nella figura del soggetto privato il vero propulsore di razionalità gestionale, di autentica innovazione e di efficienza degli output. È la raffigurazione teoreticamente perfezionata di ciò che Alessandro Aresu ha definito «capitalismo politico».
In questa prospettiva, istruzione e cultura diventano perni nodali. Sono molte, e tutte interessanti, le pagine che Karp dedica alla necessità di riscoperta del senso di comunità, citando Alasdair MacIntyre, opponendosi a quel fallace e sovente falso pluralismo, tirannico negli esiti, che rischia di travolgere la società occidentale.
Egualitarismo posticcio e secolarismo hanno imbrigliato le parole, frenando l'innovazione tecnologica stessa. Per questo, scrive Karp, è importante porsi questioni ulteriori, metafisiche, che trascendano il meramente contingente e che abbiano anche una visione morale. La stessa Silicon Valley è stata ottenebrata da ciò che Roger Scruton, rammenta Karp, ha definito nella sua critica a Peter Singer «utilitarismo vacuo».
«La nostra cultura» si legge nel volume «deve fare in modo che lo spazio pubblico torni ad accogliere una serie di concezioni significative che riguardano la vita buona o virtuosa, le quali, per definizione, escludono alcune idee per favorirne altre». Non una lezione da poco, in tempi di woke.
La Silvio Berlusconi Editore, sotto la guida di Marina Berlusconi, sta dedicando molta attenzione alle varie declinazioni della libertà, e non per caso assieme al volume di Karp escono due volumi che della
tecnologia e della Silicon Valley offrono una prospettiva diversa, Gente che se ne frega di Sarah Wynn-Williams e il classico di Jacques Ellul, La società tecnologica. Perché la libertà, prima di tutto, è pluralismo. Quello vero.