Quella sera, alle otto, Strike tornò nella sua mansarda di Denmark Street con la sensazione di gonfiore intestinale che gli dava sempre lo champagne e un umore un po’ depresso. In altre circostanze si sarebbe comprato la cena in un takeaway lungo la strada, ma quando, l’anno prima, era stato dimesso dall’ospedale dopo un ricovero di tre settimane, gli era stato ordinato tassativamente di dimagrire, fare fisioterapia e smettere di fumare. E per la prima volta da quando aveva perso la gamba saltando su una mina in Afghanistan, aveva seguito le prescrizioni dei dottori.
Senza troppo entusiasmo, mise delle verdure in una pentola a vapore nuova di zecca, prese un filetto di salmone dal frigo e aggiunse una porzione di riso integrale, cercando per tutto il tempo di non pensare a Robin Ellacott e riuscendo solo a prendere coscienza di quanto fosse difficile non pensarci. Certo, aveva lasciato l’ospedale pieno di buoni propositi, ma anche oppresso dal fardello di un problema di ardua soluzione, che non poteva essere risolto con dei cambiamenti nello stile di vita, un problema che, in realtà, si portava dietro da molto più tempo di quanto volesse ammettere, ma che si era trovato ad affrontare solo quando, dal fondo di un letto d’ospedale, aveva visto Robin andare al suo primo appuntamento con Murphy.
Ormai da parecchi anni si ripeteva che avere una relazione con la socia della sua agenzia investigativa avrebbe forse significato mettere a repentaglio l’amicizia più importante della sua vita – quella con lei – e la stessa attività che avevano costruito insieme. Se era vero che vivere ostinatamente da soli in una piccola mansarda sopra l’ufficio comportava le frustrazioni e le rinunce tipiche dei single, era anche vero che quelle frustrazioni e quelle rinunce erano un prezzo che valeva la pena pagare per l’indipendenza e la tranquillità dopo gli infiniti patemi e burrasche della lunga e altalenante relazione con Charlotte. Tuttavia, lo choc di sentire che Robin andava a un appuntamento con Ryan Murphy lo aveva costretto ad ammettere che l’attrazione fisica, presente già dal primo momento in cui lei si era tolta il cappotto nel suo ufficio, si era pian piano trasformata, suo malgrado, in qualcos’altro, qualcosa a cui lui, alla fine, era stato costretto a dare un nome. L’amore si era manifestato sotto una forma che non aveva riconosciuto, ed era senza dubbio per quello che Strike si era accorto del pericolo troppo tardi per evitarlo.
Per la prima volta da quando aveva conosciuto Robin, non era minimamente interessato ad allacciare una relazione sessuale con un’altra donna allo scopo di non pensare a lei e sublimare i sentimenti che inopportunamente po teva nutrire nei suoi confronti. L’ultima volta in cui aveva cercato conforto in un’altra donna, per quanto bella, tutto era finito con lei che gli piantava il tacco a spillo nella gamba e lui che provava un terribile senso di inutilità. Non sapeva ancora dirsi se, nel caso la relazione tra Robin e Murphy fosse finita (cosa che si augurava vivamente), avrebbe ripreso un dialogo a cui in passato aveva resistito con tutte le sue forze, e che era volto a sondare i sentimenti di Robin per lui. Le obiezioni all’ipotesi di una relazione con la collega rimanevano. D’altro canto («Come stai bene con il bambino in braccio!» quello stronzo di Murphy aveva avuto il coraggio di dire a Robin), Strike temeva che la partnership professionale sarebbe andata in ogni caso a ramengo, in quanto Robin avrebbe ritenuto il matrimonio e dei figli più importanti della carriera di detective. E così ecco che Cormoran Strike, più magro, più atletico e con i polmoni più sani, se ne stava solo nella sua mansarda, a rimestare con rabbia broccoli con un cucchiaio di legno, pensando a come non pensare a Robin Ellacott.
La suoneria del cellulare giunse come una gradita distrazione. Togliendo salmone, riso e verdure dal fuoco, Strike rispose.
«Ehilà, Bunsen» disse una voce familiare.
«Shanker! Qual buon vento?».
L’uomo al telefono era un vecchio amico, anche se lui faceva fatica a ricordarne il vero nome. La madre di Strike, Leda, lo aveva raccattato dalla strada a sedici anni dopo che era stato accoltellato, orfano di madre e già incallito criminale, e lo aveva portato a casa sua, o meglio in una casa occupata abusivamente. In seguito Shanker era diventato una sorta di fratellastro per Strike, ed era forse l’unico essere umano che non aveva mai visto nessun difetto in una donna come Leda, sempre inguaribilmente volubile e sempre a caccia di novità.
«Ho bisogno di aiuto» disse Shanker.
«E cioè?» chiese Strike «Devo trovare un tipo».
«Per che cosa?» domandò Strike.
«No, non è come pensi» protestò Shanker. «Non è per fare casini».
«Bene» disse Strike, facendo un tiro dalla vape-pen che continuava a fornire nicotina al suo organismo. «Di chi si tratta?
» «Il padre di Angel».
«Il padre di chi?
» «Angel, la mia figliastra».
«Ah!» fece stupito Strike. «Ti sei sposato?
» «No, è che vivo con sua mamma» sbottò spazientito Shanker.
«Si tratta degli alimenti per la bambina?
» «No. Abbiamo appena scoperto che Angel ha la leucemia».
«Oh, cazzo» disse Strike, sgomento. «Mi dispiace».
«Vorrebbe vedere il suo vero padre e non abbiamo idea di dove sia. È una testa di cazzo, ma non il tipo di testa di cazzo che potrei trovare io».
Strike afferrò il concetto: i contatti di Shanker nel mondo della criminalità londinese erano numerosi, e gli sarebbe stato facile rintracciare un delinquente professionista.
«Va bene, dammi un nome e una data di nascita» disse, cercando una penna e un taccuino. Shanker glieli dettò, poi chiese: «Quanto vuoi per il servizio?
» «Mi renderai un favore» rispose Strike.
«Ah, sì?» fece l’altro, stupito.
«D’accordo, allora. Ciao, Bunsen».
Poco propenso com’era alle chiacchiere telefoniche inutili, Shanker chiuse la comunicazione e Strike tornò al suo salmone coi broccoli. Gli dispiaceva per la bambina leucemica che desiderava vedere il vero padre, ma, pensò, essere in credito di un favore con Shanker gli avrebbe fatto comodo. Le piccole soffiate e le informazioni che riceveva dal suo vecchio amico, e che a volte gli servivano come esca per i suoi contatti con la polizia, erano aumentate parecchio di prezzo da quando l’agenzia investigativa aveva registrato diversi successi.
Preparatosi il piatto, Strike stava per deporlo sul tavolo della cucina quando gli squillò di nuovo il cellulare. La chiamata gli era stata inoltrata dalla linea fissa dell’ufficio.
Esitò prima di rispondere, perché aveva la sensazione di sapere chi stesse all’altro capo del telefono.
«Strike» disse.
«Ehi, Bluey» mormorò una voce leggermente biascicante sullo sfondo di un grande chiasso in cui convergevano voci e musica.
Era la seconda volta in una settimana che Charlotte lo chiamava.
Siccome non aveva più il suo numero di cellulare, l’unica linea che poteva usare per contattarlo era quella dell’ufficio.
«Ho da fare, Charlotte» rispose, freddo.
«Lo sapevo che avresti detto così... sono in un orribile club. Ti farebbe schifo».
«Ho da fare» ripeté lui, e chiuse.
Si aspettava che richiamasse, e infatti richiamò. Strike lasciò che rispondesse la segreteria e si tolse la giacca del vestito elegante. Mentre se la sfilava, sentì che c’era in tasca qualcosa che non avrebbe dovuto esserci e tirò fuori un pezzetto di carta.
Aprendolo, vide un numero di cellulare e il nome “Bijou Watkins”. Quella donna, pensò, aveva dimostrato un’abilità niente male per infilargli in tasca un foglietto senza che lui se ne accorgesse. Lo strappò in due, lo buttò nella spazzatura e si sedette a mangiare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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