
In un articolo pubblicato sul Risorgimento Liberale alla fine di luglio del 1944 Benedetto Croce ricordò di essersi iscritto, una volta convinto di non poter più nutrire illusioni sul fascismo, al partito liberale del quale «era capo spirituale il nobile e rimpianto Francesco Ruffini». Più volte, anche in seguito, il filosofo ebbe occasione di ricordare con affetto e considerazione la figura del giurista piemontese anche al fine, tutto sommato, di stabilire o ribadire una sorta di continuità ideale e politica tra il partito liberale degli anni venti, di Ruffini appunto, e quello del quale, nel dopoguerra, egli era presidente. In effetti, al di là dell'effettivo suo impegno politico che si concretizzò, fra l'altro, nel rifiuto di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo previsto per i professori universitari Ruffini era una icona del pensiero liberale. E al suo funerale, il 31 marzo 1934, furono presenti, oltre a Croce, nomi illustri del Pantheon liberale italiano, da Luigi Albertini a Luigi Einaudi, da Marcello Soleri a Luigi Salvatorelli e a Gioele Solari. Il più illustre e congeniale dei suoi allievi, Arturo Carlo Jemolo, riferendosi proprio a quella cerimonia, dopo aver ricordato la presenza dei carabinieri, scrisse: «i superstiti si contano» e aggiunse: «a qualcuno viene in mente il funerale del conte di Chambord, la bandiera del legittimismo rinchiusa con lui nella cripta: non sono questi gli ultimi liberali?».
Francesco Ruffini questo professore di diritto ecclesiastico, d'aspetto aristocratico, severo e distinto, con una lunga e fluente barba bianca che richiamava alla mente certi personaggi iconici dell'età risorgimentale aveva nel conte Camillo Benso di Cavour lo ricorda Bruno Quaranta in una bella prefazione al saggio di Gioele Solari La vita e l'opera scientifica di Francesco Ruffini, un testo uscito nel 1934 sulla Rivista internazionale del diritto e ora per la prima volta in volume (Aragno, euro 13) «il faro della sua visione liberale». Non a caso pubblicò diversi scritti sullo statista piemontese, a cominciare dal volume su La giovinezza del conte di Cavour (1912), che è, in fondo, oltre che un omaggio allo statista piemontese, la dimostrazione della sua sensibilità storiografica e dei suoi interessi storici per il Risorgimento italiano e per i suoi protagonisti.
In fondo lo fa notare Solari in questo splendido «medaglione» scritto a caldo in occasione della sua scomparsa Ruffini, prima ancora, e forse più, che giurista (quale fu unanimemente riconosciuto), può essere considerato anche uno storico perché «dello storico ebbe la passione, l'insoddisfazione, la pazienza della ricerca, l'ossessione del nuovo, lo scrupolo dell'oggettività, il disinteresse eroico. Più esattamente uno «storico delle idee, degli stati e atteggiamenti spirituali in quanto questi e quelle si traducevano esternamente in documenti, in dottrine, in personalità concrete». Una delle sue opere più note insieme all'aureo libretto Diritti di libertà (1926) pubblicato da Gobetti in aperta polemica con la legislazione liberticida fu di carattere storico: Libertà religiosa. Storia di un'idea (1901), un testo divenuto classico, tradotto in più lingue e ristampato, poi, a metà degli anni settanta.
Nato nel 1863 in un piccolo centro piemontese, Ruffini svolse la maggior parte della sua carriera accademica a Torino fu preside della Facoltà di Giurisprudenza e rettore dell'Ateneo ma, soprattutto, divenne il punto di riferimento di quel particolare «liberalismo piemontese», così ben descritto da Luigi Einaudi in suo celebre articolo, caratterizzato da sobrietà, moralismo e tensione etica. Egli, per molti aspetti simile a Luigi Albertini, era come osservò il più celebre dei suoi allievi, Arturo Carlo Jemolo quella di «un conservatore laico» che nutriva molte riserve nei confronti di Giovanni Giolitti, sia per motivi di ordine politico sia per ragioni di tipo etico perché lo statista di Dronero gli appariva troppo uomo del compromesso: e, in questo, il suo giudizio severo su Giolitti aveva qualcosa di quell'intransigentismo moralistico che avrebbe caratterizzato il suo allievo Piero Gobetti. Al tempo stesso, però, Ruffini era un cattolico liberale, che manifestava tolleranza (ma non indifferentismo) per tutte le confessioni religiose e che aveva profonda sintonia intellettuale e predilezione per Alessandro Manzoni, in qualche misura, al pari dello stesso Cavour, legato alla tradizione del giansenismo. E del suo «manzonismo» ci restano diverse testimonianze tra le quali un bel saggio su La vita religiosa di Alessandro Manzoni (1931) che ricostruisce, basandosi su documenti allora inediti, l'itinerario spirituale del grande scrittore dalla sua originaria formazione illuministica alla conversione al cattolicesimo.
Per quanto fosse anche, come si è detto, un ammiratore proprio di Cavour e dell'opera sua per la realizzazione dello Stato unitario, Ruffini non ne condivideva tuttavia la politica separatista sui rapporti fra Stato e Chiesa vagheggiata per l'Italia, appunto, da lui e dai suoi successori, a cominciare da Marco Minghetti. Osserva in proposito, giustamente, Giole Solari che Ruffini non credeva cha la soluzione separatista «libera Chiesa in libero Stato» fosse la più adatta per un Paese come l'Italia, sede del Pontificato romano, perché quella formula «risentiva di un clima storico e religioso che non era il nostro tradizionalmente cattolico e giurisdizionalista». Non a caso egli votò, come pochissimi suoi colleghi, contro la ratifica dei Patti Lateranensi in Senato e concordò con Croce i termini del discorso che il filosofo pronunciò in quella occasione. E il rapporto con Croce fu sempre molto stretto anche se, in più occasioni, i due ebbero posizioni diverse: il caso più clamoroso si verificò in occasione della Grande Guerra quando si vide Ruffini schierato fra gli interventisti e Croce nel campo degli oppositori al conflitto.
L'antifascismo di Ruffini fu strettamente collegato alla sua concezione di un liberalismo che, al di là del tradizionale giurisdizionalismo liberale, che trovava nella libertà religiosa il nucleo originale di tutti i «diritti di libertà» perché «quello della inviolabilità della propria coscienza fu il primo e per un pezzo il solo diritto che l'individuo abbia accampato di fronte allo Stato». Con estrema coerenza Ruffini aderì al Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce, rifiutò, come si è detto, il giuramento dei professori universitari al regime incurante delle contestazioni che gli venivano mosse. È significativo in proposito il fatto che, un giorno, salito in cattedra per una lezione vi trovò una museruola, lasciata lì simbolicamente come invito a tacere, la scostò e rivolgendosi agli allievi disse sorridendo, e suscitando ilarità: «qui un cane ha lasciato la sua museruola».
Il saggio di Giole Solari, il quale pure dello stesso Ruffini fu allievo, venne scritto all'indomani
della morte dello studioso e certo risente del clima del tempo ma è un testo bellissimo soprattutto laddove, pur senza negare la grandezza del giurista, mette in luce la sua sensibilità per la storia e la ricerca storica.