Controcultura

L’infocrazia è una prigione ma possiamo evadere

Byung-Chul Han racconta "le nostre vite manipolate dalla rete". Per resistere al dominio del regime digitale

L’infocrazia è una prigione ma possiamo evadere

Infocrazia (Einaudi, pagg. 84, euro 12,50) di Byung-Chul Han è il seguito naturale del suo saggio precedente, Le non cose (Einaudi, 2022), in cui il pensatore nato a Seoul e da anni in Germania raccontava «Come abbiamo smesso di vivere il reale». Le non-cose, diceva Byung-Chul Han, sono le informazioni, che «si piazzano davanti alle cose facendole sbiadire». La realtà scompare a favore del dominio dell'informazione «che si spaccia per libertà». È su questo dominio che si concentra, appunto, Infocrazia: il regime dell'informazione che ha sostituito la democrazia e che è una forma di totalitarismo del tutto nuova. Quello che viene sfruttato, e che Byung-Chul Han ci racconta con terrificante precisione, sono «Le nostre vite manipolate dalla rete». Tutti, o quasi, siamo convinti di sapere che, quando navighiamo su internet o usiamo i social, i nostri dati vengono carpiti, registrati e utilizzati; siamo consapevoli di essere «profilati», un po' come quando Carrie Mathison è a caccia dei terroristi per conto della Cia in Homeland; siamo anche quel tantino arroganti da supporre di poter evitare quelle trappole commerciali costruite appositamente per noi, in base al nostro profilo. E questo perché ciascuno di noi, dopo secoli di Illuminismo, istruzione, democrazia, battaglie per i diritti, psicanalisi ecc. ecc. «si crede libero, autentico e creativo: produce e performa sé stesso». A questo punto, se sospettate che qualcosa non torni, avete indovinato: in effetti, il soggetto libero, creativo e autentico è proprio «il soggetto sottomesso nel regime dell'informazione». È questa l'arma quasi imbattibile del nuovo potere: esso non ha bisogno di un panottico per isolarci e controllarci, non ha bisogno di imporre un'ideologia attraverso la violenza e nemmeno di inculcarci subdolamente la paura della sorveglianza; gli basta assecondare il nostro desiderio di comunicazione e di visibilità. Nel momento stesso in cui comunichiamo ci incateniamo con le nostre stesse dita; nel momento in cui ci esibiamo, ci esponiamo «volontariamente alla luce dei riflettori», nudi e felici davanti al nostro controllore. Che ci premia con ulteriore visibilità e possibilità di comunicazione: un circolo vizioso che genera dati su dati e, quindi, pane per il regime infocratico. Il cibo, ovviamente, siamo noi. «Bestie da dati e consumo». Byung-Chul Han ci spiega perfettamente il meccanismo, cristallino nella sua essenza (la trasparenza è una delle caratteristiche della nuova sorveglianza), della società dell'informazione: «Al posto delle chiusure compaiono le aperture. Le celle d'isolamento vengono sostituite dalle reti comunicative. La visibilità è ora prodotta in maniera completamente diversa, non mediante l'isolamento ma attraverso la connessione. La tecnica informatica digitale rovescia la comunicazione in sorveglianza: quanti più dati generiamo, quanto più intensivamente comunichiamo, tanto più efficiente diventa la sorveglianza». Essa sfrutta ciò che amiamo: la libertà e la comunicazione. Ed è così che «il dominio si compie nel momento in cui libertà e sorveglianza coincidono». Se percepite il paradosso, allora c'è ancora uno spiraglio. È difficile da intravedere, perché «la prigione digitale è trasparente» e ci lascia credere che, come noi siamo trasparenti per il regime, esso sia trasparente con noi; ma, ovviamente, questo non è vero: «La sala operativa della trasparenza è oscura. Ci consegniamo, così, al crescente potere della blackbox algoritmica». Come tutto ciò porti a considerare i prodotti di consumo dei mezzi di auto-realizzazione, alla trasformazione della nostra identità in merce, al potere degli influencer sulla nostra libertà (che evocano continuamente), alla fine della comunità e del dialogo, a mettere a rischio la democrazia e, più radicalmente, a disintegrare il concetto di verità, che non significa più alcunché di fronte a una realtà che viene «de-fatticizzata», cioè attaccata nel suo stesso essere realtà, il pensatore coreano lo racconta per filo e per segno in pagine brevi, dense e quasi senza scampo. Quasi. Ecco qualche possibile maglia rotta nella rete digitale, che spunta qua e là. Primo: ritrovare l'altro. «L'altro è in sparizione»; infatti non ascoltiamo e, quindi, non dialoghiamo. Perciò la società si sgretola, perciò entriamo ancora più in crisi, la sfiducia ci attanaglia, e cerchiamo fondamenti identitari in teorie complottistiche che farebbero ridere un bambino dell'asilo. Secondo: smentire i «dataisti». Sono coloro che credono nei dati come divinità e che, da essi, si ottenga il sapere totale, a scapito della libertà del singolo (che diventa obsoleta). Siamo sicuri di essere riducibili a dati? I Big Data conoscono i nostri desideri più profondi, quelli diversi da un paio di scarpe? Terzo: tornare alla realtà. Questa, con la sua imprevedibilità, dimostra che i dati non sono tutto: gli algoritmi sono forse riusciti a prevedere la pandemia o la guerra e a darci quel mondo senza crisi che promettevano? Tutt'altro. La tecnologia e la comunicazione digitale, dice Byung-Chul Han, attraverso gli algoritmi ci conducono a «una nuova minorità», quella dell'uomo-merce e della verità-merce. Però anche Kant, che non aveva da vituperare i social, notava che l'uomo, anche se è intelligente, spesso si lascia guidare da altri. Infatti, questa era la sua definizione di illuminismo: «L'uscita dell'uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole». Königsberg è lontanissima, però il motto dell'illuminismo, volendo, si sente ancora benissimo: «Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza». La luce può illuminare anche la platonica caverna digitale..

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