
Le parole hanno un peso.
Se si viene descritti solo dall’esterno e a partire da un errore fondamentale di collocazione vuol dire che si rischia di non avere una storia. Detto questo; «indiani americani» (American Indians) può essere un’espressione corretta? La risposta ovviamente è no. Ne sono state provate molte altre, anche prima che si ragionasse di politicamente corretto. Meglio allora scrivere «nativi americani» (Native Americans) o ricorrere ad altre definizioni - tutte utilizzate con mutevole frequenza anche dai diretti interessati - come «primi popoli» (first peoples) o «primi americani» (first Americans)? Sul tema esiste un dibattito acceso e irrisolto, che non è una semplice questione linguistica. Raccontare gli “indiani” è molto complesso e si finisce per farlo schiacciando la loro storia e la loro cultura sull’incontro con l’uomo bianco. Un esempio banale? Gli indiani e il profondissimo rapporto con il cavallo che impregna la loro cultura. I nativi americani hanno incontrato il cavallo all’arrivo degli spagnoli, appartiene alla loro cultura quanto le armi da fuoco o il whisky.
Per rendersi conto di questi bias euristici può aiutare la lettura di Il lungo sentiero.
La storia mai conclusa dei nativi nel Nordamerica (Il Mulino, pagg. 240, euro 22) a firma di Claudio Ferlan.
Ferlan, ricercatore storico della Fondazione Bruno Kessler spiega che le diverse «nazioni» (il termine è da preferire a quello di «tribù») amano essere indicate con il proprio nome non tradotto, Lakota, per esempio. Dire «indiani» è una generalizzazione spesso arbitraria. Per usare le parole di Ferlan: «Nel 1973 lo scrittore Vine Deloria jr. (lakota-oglala) sostenne che gli indiani in quanto tali non esistono, l’unica esperienza comune per loro fu l’invasione delle proprie terre da parte degli europei. Sulla stessa linea si muove Paul Chaat Smith (comanche), che ha sintetizzato molto bene la questione già affrontata da Deloria jr. nelle prime pagine di Everything You Know About Indians Is Wrong. Chaat Smith scrive che gli indiani sono diventati tali solo dopo la fine della lotta armata contro gli Usa. Prima di allora non esisteva questa idea collettiva importata da oltre Atlantico: c’erano gli Scioscioni (Shoshone in inglese; Newe nella loro lingua), i Piedi Neri (Blackfeet, Aamsskáápipikani, Pikuni), i Corvi (Crow, Apsáalooke)...».
Il pregio del libro di Ferlan è proprio quello di insistere su questa pluralità. Le «nazioni» indiane sono state più di cinquecento e hanno fatto a lungo politica, controllato estesi territori, combattuto guerre, sviluppato un gran numero di lingue e di mitologie. L’indiano nomade, a cavallo e cacciatore di bufali è un’immagine parziale. Fuorviante anche dal punto di vista della narrazione di quelle che normalmente chiamiamo «guerre indiane». L’episodio più importante non è stato certamente la famosissima battaglia di Little Bighorn (25 giugno 1876). A quell’epoca gli indiani erano ormai da un centinaio di anni respinti e sulla difensiva.
Ben diversa ad esempio la guerra passata (ma passata poco visto che probabilmente il lettore non la ricorderà) alla storia come guerra di Re Filippo (1675 - 1676). Vediamo di tratteggiarne i contorni per far capire quanto gli equilibri in quell’epoca fossero più complessi. I coloni provenienti dall’Inghilterra che stabilivano insediamenti a sud di Plymouth (tra Rhode Island e Connecticut) si trovarono a scontrarsi con le nazioni dei Narragansett e Pequot. Il problema era il canale del Long Island Sound. Lo scontro scoppiò con una scusa nel 1636 e si concluse nel 1638 con la sconfitta dei Pequot che non riuscirono a difendere i loro villaggi fortificati (in questi casi erano gli indiani a difendersi nei forti, non i bianchi). Ad aiutare le milizie puritane la nazione Narragansett, milizie e indiani amici erano ben più temibili dell’esercito inglese. Il risultato fu una strage. Nacque proprio in questo conflitto l’abitudine di fare lo scalpo ai propri nemici. Gli inglesi offrivano a chi portava la testa di un nemico una ricompensa. Le teste pesavano... gli scalpi meno.
Quello che i Narragansett non avevano calcolato era che poi sarebbe venuto il loro turno. Gli arrivi dall’Europa proseguivano. Alcune nazioni locali fecero un serio tentativo di reagire alla pressione. Si aggregarono attorno alla nazione Wampanoag comandata da Metacomet (chiamato Re Filippo dai coloni). Ne nacque una nuova guerra e fu una guerra dove i nativi si divisero, perché in caso contrario probabilmente i coloni avrebbero seriamente rischiato di essere buttati a mare. A sostegno dei Wampanoag si schierarono i Narragansett, i Nipmuc e molti di quelli che non si erano convertiti al cristianesimo. Gli inglesi reclutarono i Mohegan, i Pequot superstiti che volevano vendetta almeno sui Narragansett, i Mohawk e gli Abenaki orientali. E furono Mohawk e Abenaki a far pesare la bilancia dalla parte inglese. Anche re Filippo fu ucciso e del suo corpo fatto scempio.
Gli occidentali entrarono nel continente come un attore esterno che agiva appoggiandosi agli attori interni.
Spesso molto più forti. Semplicemente molte nazioni non compresero la dimensione sul lungo periodo dell’arrivo di genti dall’Europa. Si fecero coinvolgere in guerre che consideravano come quelle che avevano sempre combattuto. Sbagliavano.
Questa è solo una delle molte chiavi interpretative fornite da Ferlan che cambiano il panorama di lettura di questo coacervo di popoli.