"Parlo di donne divise e nevrotiche ma scrivo romanzi maschili e scorretti!

L’autrice Giada Biaggi, classe 1991, si racconta tra filosofia e tv Modelli Stile

"Parlo di donne divise e nevrotiche ma scrivo romanzi maschili e scorretti!
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Giada Biaggi è dietro le quinte del programma di Piero Chiambretti Donne sull’orlo di una crisi di nervi (Raidue). Subito cerca di fingersi svampita come il suo alter ego comico: «Sono una scrittrice, anzi l’erede di Alberto Arbasino». In effetti, così scrisse Walter Siti; il quale conferma, ma precisa di avere scherzato.

Allora ho letto i due libri di Biaggi, Il bikini di Sylvia Plath (nottetempo, 2022) e Comunismo a Times Square (Feltrinelli, 2024), e ho avuto tre risposte: questa donna nata nel 1991 è meno sciroccata che furbesca; è una scrittrice di vasto talento; arbasiniana, un po’ lo è, se non altro per l’impronta postmoderna, altobassa e ipercitazionista dei suoi testi. Ma approfondiamo.

Biaggi, a me le sue storie ricordano una certa letteratura americana recente, Bret Easton Ellis, Jay McInerney, forse per le atmosfere metropolitane...

«Mi piace quel tipo di letteratura americana, forse in Italia non la vogliamo fare perché si pensa che vincano solo la retorica e lo struggimento».

Possiamo dire che usa la forma del romanzo filosofico?

«Sì, infatti mi piace Kundera, mi piace Houellebecq, tanto che il mio secondo libro è molto “maschile”, e scorretto nei temi, e infatti gli altri scrittori italiani non l’hanno preso in considerazione».

Le sue protagoniste, giovani donne nevrotiche, si assomigliano.

«Ci sono delle similitudini. Mi piace creare un immaginario. Se Houellebecq scrive sempre dello stesso personaggio nichilista, per me la donna è quella divisa tra i due mondi dell’apparire e dell’essere, tra le contraddizioni di un’epoca in cui cambiano i generi. A volte per stilizzazione narrativa si tende a fare dei personaggi monolitici. Noi donne contemporanee siamo in grado di essere abitate da una certa complessità. Un certo tipo di narrazione maschile ha fatto esistere una donna a due sole facce: o così o colì. In primis Philip Roth, che io amo, però...».

Ecco, Roth. Lei su un settimanale ha scritto che ci sarebbe andata a letto.

«È affascinante come ha raccontato il sesso in Portnoy. E io quando parlo di sesso vorrei essere presa sul serio come Portnoy».

È vero che ha un master in Germania, con tesi su Heidegger?

«Sì. Ma il mio filosofo preferito è Wittgenstein. Tra i contemporanei, Slavoj Zizek, a cui mi ispiro per i miei interventi comici; usa il codice dell’ironia per parlare di cose complicate».

È una figura non accademica, un personaggio social.

«Ma infatti è una cosa della sinistra italiana, che l’intellettuale sia diventato Veltroni che scrive i libri sulle partigiane. O Parrella, Valerio, mah... Oggi Foucault userebbe i social».

Che cosa c’è che va e che non va nei suoi coetanei?

«Viviamo al di sopra delle nostre possibilità. Lauree, master, eccetera, e tiriamo avanti in città con 1500 euro. Poi la scollatura tra reale e digitale. Adesso messaggi con una persona per quattro mesi e quando cerchi di incontrarla, sparisce».

Perché?

«Ansia da prestazione, credo. Uomini che escono con una donna e poi tornano a casa a guardare i video porno. Perciò scrivo che la crisi dell’Occidente ha a che fare con l’estinzione del desiderio».

Che cosa sta leggendo?

«Leggo Sally Rooney. Ma lei non è una scrittrice generazionale perché non c’è internet nei suoi libri e c’è un senso dell’amore molto ellenico, anacronistico».

Si possono colmare le differenze sociali?

«Solo se si ha talento».

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