Quando muore un padre

“Cosa si prova quando muore tuo padre”. Era questa la frase che, in una notte insonne, avevo cercato su Internet non appena avevo saputo che mio padre era malato di cancro ai polmoni

Quando muore un padre
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“Cosa si prova quando muore tuo padre”. Era questa la frase che, in una notte insonne, avevo cercato su Internet non appena avevo saputo che mio padre era malato di cancro ai polmoni. Possibilità di guarire zero. Aspettativa di vita: massimo cinque anni per i più fortunati. Qualche settimana per quelli più segnati dalla malattia. “Cosa proverò quando morirà mio padre?” è la domanda che mi sono posto con più frequenza negli ultimi due anni e mezzo. Fino all’altro ieri, quando mio padre è morto. E non c’è risposta su internet che tenga. Quando muore tuo padre crolli. È un po’ come se perdessi una delle due bretelle del paracadute. Fino all’attimo prima sapevi che - nella tua discesa, ovvero nella tua vita - eri protetto. Ora una bretella non c’è più, almeno fisicamente. Ne resta solo una e speri che duri il più a lungo possibile. Intanto però l’altra è andata, lasciando un vuoto che ti fa dondolare a ogni soffio di vento. Sei come un pendolo e speri che le folate non siano troppo forti. Ma sai che devi andare avanti fino a quando non metterai i piedi al suolo.

Quando muore tuo padre lo conosci davvero. Si dice che sia il padre a provocare la prima ferita al figlio. È lui a rompere il legame simbiotico con la madre e a portarci nella realtà. Una realtà che è piena di ferite. Ha questo compito terribile e, per certi versi, crudele di condurci nel mondo. Ed è lì, dicono gli psicologi, che il padre diventa nostro rivale perché incarna un ideale troppo alto oppure ci delude. In ogni caso, ancora una volta, ci ferisce. Lo ammiriamo ma, allo stesso tempo, vorremmo essere di più. Oppure è troppo poco e, ancora una volta, vorremmo essere più di lui. Ma è quando muore che tu finalmente lo vedi per quello che è e che è stato nel mondo.

Mio padre era silenzioso. Amava intagliare il legno e, proprio come un ramo, aveva le braccia piene di venature. Stava. Stava dove doveva essere. Aveva iniziato a lavorare da giovanissimo solamente perché la sua famiglia ne aveva bisogno. La terza media l’aveva presa solamente da sposato perché ci teneva. Perché, a modo suo, amava la cultura. Soprattutto quella plastica, come appunto le sculture che realizzava. Quando aveva finalmente trovato il lavoro che gli piaceva, aveva deciso di lasciarlo perché, quando tornava a casa dopo settimane, io, che ero piccolissimo, non lo riconoscevo e non volevo andargli in braccio. Cambio di lavoro, dunque. C’è un bene più grande. Ancora una volta: stava lì dove doveva essere. Anche rinunciando a ciò che, lavorativamente, poteva appagarlo. E per tutta la vita ha fatto questo. Decine di persone sono venute a casa nostra, alcune sconosciute (se va avanti così scopriremo che papà lavorava per i servizi) che ci hanno detto che Galdino, questo il nome di mio padre, è sempre stato pronto ad aiutarle, sempre in silenzio, facendo ciò che sapeva fare meglio: aggiustare le cose.

Ed è forse questa la qualità degli uomini della mia famiglia: sistemare ciò che non funziona. Fino all’estremo sacrificio. Anni fa, una zia aveva perso la casa e, proprio mentre si arrabattava per cercarne una, mio nonno è morto, liberando così la sua dimora. Già all’epoca pensai che quello fosse una sorta di sacrificio. Era un po’ come se il nonno, datemi del pazzo ma io l’ho letta così allora e continuo a pensarla in questo modo, avesse voluto lasciare libera quella casa a una figlia che ne aveva più bisogno di lui. Si chiama sacrificio, ovvero rendere sacra la realtà fino alla disponibilità a morire. E così è successo con mio padre. Stavo per prendere una decisione importante sulla mia vita. Di quelle che segnano uno spartiacque ed ero pronto a farla. Poi la notizia: “Vestiti, ci hanno chiamato e papà è messo male”. Tutto passa in secondo piano. Fino a quando arrivi di fronte a quel corpo freddo e più piccolo di quanto ricordassi. Ancora una volta stava. Ancora una volta l’essenziale. Ancora una volta, mio padre mi portava alla realtà, fino all’estremo sacrificio. E allora tutto passa in secondo piano. Del resto, la mia famiglia ed io crediamo in un Dio che si è fatto mettere in croce per la salvezza di molti. Che si è sacrificato.


E allora forse è più importante chiedersi non cosa si prova quando muore tuo padre, ma cosa ti lascia in eredità. Il silenzio, qualità ormai persa. La presenza discreta. L’esserci sempre. La capacità di aggiustare le cose non solo con un cacciavite ma anche dentro al cuore. L’amicizia. L’amore. Un bernoccolo per la damigiana rovesciata (scusa ancora!). Mani ruvide come la corteccia che ti scaldano ancora le ossa. L’onore, che non si vede, e che va di pari passo con il pudore. Il sacrificio.

L’amore per la realtà, anche quando sembra tutto una disgrazia. La forza per prendere la croce e per portarla. La pazienza. Il sacrificio. Grazie, anche se te lo dico troppo tardi. Mi hai fatto l’uomo più ricco del mondo.

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