Letteratura

Tedeschi e francesi nella Grande guerra. Quando i versi diventano bombe e fucili

Oltre agli autori notissimi, scopriamo Peter Baum, il pacifista Erich Kästner e l’aristocratico Marc de Larreguy de Civrieux, morto a 21 anni presso Verdun

Tedeschi e francesi nella Grande guerra. Quando i versi diventano bombe e fucili

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Nel 1929, a dieci anni dalla fine della Prima guerra mondiale, Vallecchi pubblicò Antologia degli scrittori morti in guerra. Salvo alcuni - Scipio Slataper, Renato Serra, Umberto Boccioni- è una lapidaria sfilza di ormai ignoti: De Pava; Fauro; Borsi; Picardi; Costanzi; Castellini; Petraccone; Cambini... Pare un triste rintocco di campane.

Quanto a memoria storica e a lignaggio lirico, siamo inermi rispetto ai sudditi d’Albione: i «Poets of the First World War» sono ricordati in un memoriale infisso a Westminster.

Alcuni - Robert Graves, Ivor Gurney, Wilfred Owen, Rupert Brooke sono alcuni tra i poeti in lingua inglese più potenti del secolo. Ad ogni modo, dopo la Prima guerra, la letteratura europea cambiò per sempre.

Nacquero, dal massacro, opere miliari, di irripetibile fragore, dalla Terra desolata di Eliot a Viaggio al termine della notte di Céline; dall’Ulisse di Joyce alle poesie di Montale e di Ungaretti.

L’assunto trova conferma in Sulle rovine d’Europa, libro curato con impeccabile slancio da Raoul Precht, che raduna «Poeti tedeschi e francesi della Grande Guerra» (pagg. 352, euro 20) ed è edito da Ares come ideale pendant al libro sui War Poets inglesi (uscito nel 2022, a cura di Paola Tonussi). Il libro è anche uno spaccato di storia (tragica) della letteratura europea: per galvanizzare il gioco, evito gli autori notissimi. Scopriamo, così, l’opera di Peter Baum, morto a 47 anni «in azione sul fronte lettone»: ai suoi occhi le bombe sono «sfere di luce fatte di pelo arruffato di tigre», hanno lo «sfarzo del predatore colorato, che scintilla nell’oscurità».

Erich Kästner, poeta di cui si occupò Walter Benjamin, pacifista, opta per toni sarcastici: «Siamo andati a letto con le donne/ mentre i loro uomini erano in Francia./ Pensavano che sarebbe stato più bello./ Ma non eravamo che cresimandi.// Poi ci hanno chiamati per il militare,/ ma solo come carne da cannone».

Fu obbligato al fronte diciottenne; in era nazista, i suoi libri passeranno al rogo, insieme a quelli di Zweig, Brecht e Thomas Mann. Il nobile Marc de Larreguy de Civrieux, figlio dell’alta aristocrazia francese, muore nel 1916, a ventuno anni, poco lontano da Verdun; nella «nuda beltà» delle «foreste dell’Argonna» intuiva l’inferno di Dante: «gli alberi tormentati dalla guerra.../ protestano contro lo stanco cielo!». Faccio mie le parole di Filippo Tuena: la guerra non è garanzia di alta letteratura, il sangue versato non rende grandi poeti, il patriottismo non fa affari con le questioni estetiche. È vero, tuttavia, che la nostra letteratura è iliadica, nasce sotto le mura di Ilio, è retta da parole ormai usurate come ira, coraggio, assedio, rischio. La Prima guerra ci ha dato un poeta tra i più gradi di ogni tempo, Georg Trakl. Morì a Cracovia, intossicato di cocaina, nel novembre del 1914. In Italia, Trakl ha in Roberto Carifi il più partecipe traduttore (in Canto del dipartito e altre poesie, Le Lettere, 1992).
Con la Seconda guerra, muterà tutto. Il poeta - avveniristico interventista o cantore d’abisso- non serve più: è l’epoca, a piena messe commerciale, del romanzo - ne dico, sparsi, alcuni: Il nudo e il morto di Norman Mailer, Il partigiano Johnny di Fenoglio, Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, Vita e destino di Vasilij Grossman - e del cinema, soprattutto. Tra i rari, talentuosi poeti di quella guerra, Alun Lewis scrive una poesia, Odi et Amo, in cui esprime, drasticamente, la distanza tra il sé e la storia, tra necessità e anima.

La poesia sull’orrore dell’assassinio termina con un urlo d’amore, con un inno alla gioia: «La mia anima grida il suo amore/ Per tutto ciò che freme e nuota e vola/... E i fiori dell’estate mi sbocciano sul capo/ Con tutta la bellezza intollerabile dei morti». Inviato a combattere in Birmania contro le forze dell’esercito nipponico, Alun Lewis si uccide alle cinque e mezza del 4 marzo 1944, presso le latrine degli ufficiali.
L’esercito dichiarò che fu un incidente.

Il poeta, ormai, non era soltanto inutile; era diventato un problema.

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