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L'ex capo Cia: "Così rapimmo Abu Omar"

Ecco la vera storia dell'agente Bob Lady, accusato di aver sequestrato l'imam e ricercato dai pm italiani: "Non fu un'azione criminale ma un affare di Stato. Ho solo obbedito agli ordini"

L'ex capo Cia: "Così rapimmo Abu Omar"

«Hallo, sono Bob». Il computer porta la voce sorprendentemente chiara, dall’angolo di mondo dove lo 007 che dirigeva la stazione Cia di Milano presta ora la sua opera. All’anagrafe si chiama Robert Seldon Lady, 56 anni. Ma a Milano tutti - colleghi, poliziotti, carabinieri, magistrati - lo chiamavano Bob. Gioviale, volpone, efficiente, ricco di risorse.
La spia Bob Lady era l’amico che tutti - in un certo mondo - avrebbero voluto avere. Fino a quel giorno di primavera di quattro anni fa in cui Bob dovette precipitosamente lasciare l’Italia per non finire arrestato dalla Procura di Milano. Il mandato di cattura che lo insegue ancora oggi lo accusa di sequestro di persona. Fu la Cia, dicono i pm Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, a rapire a Milano l’imam estremista Abu Omar, a caricarlo a forza su un aereo ad Aviano e consegnarlo al governo egiziano. Da quel giorno, Bob in Italia è latitante. Ora racconta la sua verità. Il sequestro di Abu Omar, dice, non fu «un’operazione criminale» ma un «affare di Stato», deciso e attuato (molto maldestramente, ammette) nell’ambito della guerra al terrorismo. E io, dice, ero un soldato di quella guerra.
Mentre Bob è chissà dove, qui in Italia il processo contro di lui e gli altri accusati del sequestro dell’imam va avanti e si avvicina alla fine. Domani, nell’aula della quarta sezione del tribunale di Milano, il pm Armando Spataro potrebbe iniziare la sua requisitoria, se non ci sarà un nuovo stop davanti alla Corte Costituzionale. E alla vigilia della requisitoria Bob Lady si lascia finalmente raggiungere via Skype nella sua nuova imprecisata sede di lavoro, per dare per la prima volta la sua versione. Un’ora abbondante di conversazione, parte in inglese, parte nell’italiano spagnoleggiante di Bob.
Mr Lady, il processo ormai è prossimo alla fine. Lei non è mai stato interrogato. Così la prima domanda è inevitabile: si dichiara colpevole? Ha partecipato all’organizzazione del rapimento di Abu Omar?
«No, non sono colpevole. Io sono responsabile unicamente di avere eseguito un ordine che avevo ricevuto dai miei superiori. Ma non è stata una vicenda criminale. È stato un affare di Stato. Quindi io non sono colpevole. Questa è la mia opinione».
Stiamo però parlando di un sequestro di persona. Per la legge italiana, come per quella americana, il sequestro è un reato grave. Lei non aveva la consapevolezza di compiere un reato, mentre collaborava al sequestro?
«Ho lavorato nell’intelligence per venticinque anni, e quasi nessuna attività che ho fatto in questi venticinque anni era legale nel paese in cui la realizzavo. Quando lavori nell’intelligence, fai delle cose che nel Paese in cui lavori non sono legali. È una vita di illegalità, se così vogliamo vederla. Ma le istituzioni degli Stati in tutto il mondo hanno a disposizione dei professionisti del mio settore, e a noi tocca fare il nostro dovere. D’altronde quando Achille ha attaccato Troia ha fatto un’operazione che non era legale, ma era quello che lui e gli altri pensavano di dover fare».
Che la Cia sia venuta a Milano a rapire un estremista come Abu Omar non è particolarmente stupefacente. Invece è sbalorditivo il modo in cui avete condotto l’operazione, lasciando sul terreno una sfilza di tracce: telefonate, carte di credito eccetera. Come fu possibile?
«La domanda me la sono fatta anch’io. Come abbiamo potuto essere così poco professionali? La risposta che mi sono dato è che c’erano troppe persone coinvolte. In queste operazioni si deve essere in pochi, e noi ce ne siamo dimenticati, questa è l'unica spiegazione. Non c’è alcuna scusa possibile, sono stati fatti troppi errori. Ma come sia concretamente stato possibile non lo so perché non ho organizzato io la cosa».
Eppure era lei il capo della stazione Cia di Milano.
«Sì, ma nella Cia quella di Milano è una piccola stazione, non ero un pezzo grosso. La cosa avveniva nella mia giurisdizione, tutto lì, ma non era assolutamente sotto il mio controllo. Funziona sempre così e c’è anche un motivo: il capo locale non deve essere coinvolto perché lo conoscono tutti. Così non ero in grado di controllare cosa accadeva. E molte cose non le so perché nell’intelligence vige la regola del need to know, sai solo quello che è necessario che tu sappia».
Comunque avete combinato un bel pasticcio.
«Troppe persone erano responsabili di singoli aspetti, e sono stati fatti così tanti sbagli che adesso è difficile individuare un singolo colpevole. Ma non posso dire che se l’avessi fatta io l’avrei gestita meglio. The mistaken were made, gli errori sono stati fatti. Punto e basta».
Chi era Abu Omar per voi?
«Sono stato io il primo a segnalare Abu Omar a Bruno Megale, che allora era il vice capo della Digos di Milano. Ci incuriosiva il fatto che fosse venuto da Latina a qui, apparentemente senza motivo. “Questo può essere pericoloso”, dissi a Bruno. Dopo un po’ Megale mi disse che avevo visto giusto. Per noi Abu Omar era la persona giusta per prendere a Milano il posto lasciato libero da Abu Saleh, che era stato il rappresentante di Al Qaida nella vostra città».
Quindi la Cia di Milano forniva informazioni alla Digos.
«Noi fornivamo informazioni a tutti gli amici con cui collaboravamo, la Digos, i carabinieri del Ros, il Sismi. A Megale ho fornito io il software per analizzare le intercettazioni che poi lui ha utilizzato per fare l’inchiesta contro di me... Ma non sono mica arrabbiato con lui. Megale è un grande poliziotto e ha fatto il suo dovere».
Assieme a lei e a molti suoi colleghi della Cia, a Milano sono sotto processo diversi agenti del Sismi accusati di avervi data una mano. Tra loro, l’ex direttore del servizio segreto Nicolò Pollari e il capo delle operazioni Marco Mancini. Per la Procura sono vostri complici. Loro negano. Chi ha ragione? Cosa sapeva il Sismi del rapimento?
«Non a tutte le domande posso rispondere, perché ho ancora dei doveri verso la Ditta. Questa è una di quelle domande. No comment».
Però l’ex capocentro Sismi di Milano, Stefano D’Ambrosio, dice di avere saputo da lei che il Sismi era coinvolto in una operazione congiunta con voi.
«Io questa cosa a D’Ambrosio non l’ho mai detta. Lui venne a chiedermela, aveva saputo che c’erano degli agenti Sismi che giravano per Milano a sua insaputa, aveva magari avuto qualche dritta da Roma, allora è venuto a farmi questo discorso. Ma io gli ho detto: guarda, Stefano, non lo so perché non sono nelle condizioni di sapere. Può darsi che lui abbia interpretato questa mia risposta come una conferma, ma io di sicuro non gli dissi niente. D’altronde in quel periodo c’era una situazione complessa dentro il Sismi, D’Ambrosio e altri ufficiali dei carabinieri vedevano malissimo il fatto che un ex maresciallo come Marco Mancini fosse diventato il capo delle operazioni. Ecco, io credo che D’Ambrosio abbia cercato di utilizzare il rapporto con me per danneggiare Mancini. Secondo lui io gli avrei detto anche che Mancini aveva chiesto di lavorare per la Cia clandestinamente. Ma anche questa cosa io non gliel’ho mai detta, lui è venuto a parlarmene e io gli ho risposto solo che non potevo saperla».
Un carabiniere del Ros, Luciano Pironi, ha confessato di avere partecipato al sequestro. Era l’unico italiano o ce n’erano altri?
«Io non ero sul posto e non ho organizzato io la cosa, la rendition, l’arresto, il sequestro, come lo vogliamo chiamare. Ma la mia convinzione è in quel momento non ci fossero altri italiani».
Il sequestro o come lo vogliamo chiamare, dice lei. Intende dire che forse non fu un sequestro? Qualcuno ipotizza che la Cia in realtà non volesse rapire Abu Omar ma solo convincerlo a collaborare, anche perché già in Kosovo si era prestato a fare da «fonte». Insomma a Milano sarebbe avvenuto solo un tentativo di reclutamento un po’ brusco.
«Io all’epoca non sapevo che Abu Omar fosse stato utilizzato in Kosovo, l’ho scoperto dopo. Però sì, posso ipotizzare che in qualche modo possa essere stata anche una operazione di questo tipo».
Si sarebbe mai aspettato di finire in un guaio simile?
«No, mai».
Umanamente, che effetto le ha fatto?
«Non posso dire di essere arrabbiato. Ma sono stanco, molto stanco. Quel che è accaduto è accaduto, e non c’è nulla che noi possiamo fare. Ecco, penso che il magistrato è andato un po’ più avanti di quello che doveva fare. Io mi consolo ricordandomi che ero un soldato, che ero in guerra contro il terrorismo, che non potevo discutere gli ordini che mi venivano impartiti. Loro mi dicono di fare questo, e io cosa posso fare? Ma c’è una cosa che non riesco a mandare giù».
Quale?
«Io amo l’Italia, avevo deciso di vivere la mia vita in Italia, tutta la mia famiglia ama l’Italia. Pensavo che qui sarei potuto servire professionalmente. E che a sessantacinque anni mi sarei messo a fare il Barbera doc nella mia grande casa vicino ad Asti, dieci ettari di vigne, un posto stupendo.

Invece sono dovuto scappare».

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