La "libera stampa" si beve tutto E su Fini si imbavaglia da sola

Il videomessaggio non ha chiarito nulla, ma quasi tutti i quotidiani si dicono soddisfatti. A loro basta sminuire le inchieste del Giornale

La "libera stampa" si beve tutto  
E su Fini si imbavaglia da sola

L’autodifesa di Gianfranco Fini sulla casa monegasca è stata accolta da molta stampa con cimbali e tamburi. Illustri editorialisti si sono sbizzarriti in psicologismi sulla breve apparizione online del presidente della Camera. Chi ne ha apprezzato gli «accenti sinceri», chi la «buona fede», chi si è commosso per «l’ingenuità» dimostrata, concludendo che Fini aveva chiarito tutto. Sono gli stessi che un mese fa si ritennero appagati dalle spiegazioni di Gianfry in otto punti. Salvo poi scoprire che si era dato la zappa sui piedi pasticciando tra l’atto di vendita dell’appartamento di An a una società offshore (l’unico di cui avrebbe dovuto sapere) e quello del successivo trasferimento del medesimo a un’altra offshore (di cui avrebbe invece dovuto essere all’oscuro) che l’ha poi locato al cognatino. Il fatto è che tutti costoro si sarebbero bevuti qualsiasi cosa Fini avesse detto. A loro non interessa sapere il ruolo effettivo di Gianfry nella faccenda. Gli basta sia nemico giurato del Cav per osannarlo.
Fini, in realtà, non ha spiegato nulla. Lo stesso mezzo usato - il messaggio online - è stato un espediente. Se fosse stato davvero sincero, il presidente della Camera avrebbe convocato una conferenza stampa e affrontato giornalisti in carne e ossa. Ha scelto invece la scorciatoia del monologo per dire quello che voleva e uscirne indenne. Aveva calcolato che, se non si esponeva troppo, i commentatori avrebbero sorvolato sui silenzi e, rovesciando la realtà, sentenziato l’assoluzione. Lui, bene o male, se l’è cavata. La stampa ne è uscita con le ossa rotte.
Fini non ha detto perché An - di cui era il legale rappresentante - ha accettato di vendere a una offshore, sinonimo di anonimato e opacità. Né perché l’abbia fatto al prezzo risibile di 300 mila euro, quando il suo immobiliarista di fiducia aveva valutato l’appartamento 1,3 milioni e un senatore del suo partito, Antonino Caruso, ha dichiarato che esisteva un’offerta di acquisto per un milione. Inoltre, toccando il fondo, ha continuato a fare lo gnorri sulle manovre del cognatino. E ciò nonostante le autorità caraibiche - le sole in grado di svelare chi si celi dietro le offshore - affermino che il titolare dell’appartamento sia Giancarlo Tulliani. Invece di prenderne atto, Fini nell’allocuzione online, ha taciuto la circostanza profittando indecentemente dell’assenza di contradditori. Cosa che in una normale conferenza stampa non sarebbe mai potuta accadere. È grazie a questa sapiente regia del monologo che il presidente di Montecitorio, esagerando in impudenza, ha potuto furbescamente dire che avrebbe dato le dimissioni solo se si fosse accertato che Tulliani era il vero proprietario della casa monegasca. Ma è accertato, signor Presidente. Le autorità caraibiche l’hanno detto papale papale: Tulliani è il titolare dell’offshore che possiede l’appartamento e, dunque, ne è il proprietario. Quel che Lei rimanda al futuro, si è già avverato. Se fa finta di niente, è perché può impunemente prenderci per i fondelli.
Qui, arriviamo al punto. Perché ci può menare per il naso? Elementare: per la complicità della grande stampa che - con poche eccezioni: Il Giornale e Libero su tutti - sorvola sui fatti e consente a Gianfry di arrampicarsi sugli specchi. Non c’è, infatti, peggior sordo di chi non vuole sentire. Hai voglia mettere in fila le prove ma se chi dovrebbe valutarle e trarne le conseguenze fa il finto tonto, tutto finisce in palude. Succede con i giudici disonesti, accade con la stampa orba. Per anni si è parlato di «presunte» Br pur di non riconoscere che gli assassini erano dell’album di famiglia. Mutatis mutandis, ci risiamo. «Fini è apparso in buona fede, convinto di non avere agito in modo illegale … Chi (dopo la comparsata online, ndr) voleva dipingere Gianfranco Fini come un cinico svenditore del patrimonio del partito… ha molte meno frecce nel suo arco avvelenato». Cito dalla prosa, sul Corsera, di Pierluigi Battista, editorialista a me caro e in genere sereno. Ma lo stesso tono crepuscolare usano anche i partigiani con l’elmetto di Repubblica, Scalfari («molte affermazioni di Fini sono condivisibili») e D’Avanzo («Fini vittima ingenua»), i cronisti della Stampa, del Riformista, ecc. Tutti lì appesi ai contorcimenti del loro protetto, pieni di buchi, più di una gruviera. Tutti improvvisamente di bocca buona ora che tocca a Fini, quando in altre occasioni hanno cercato il pelo nell’uovo fino allo sfinimento. Immaginate se l’ex ministro Scajola - che come Gianfry per Montecarlo «non sapeva nulla» del primo piano al Colosseo - avesse detto: «Mi dimetto quando sarà appurato che il prezzo della mia casa non era congruo e che il denaro in più, versato a mia insaputa, fosse necessario all’acquisto» o cose così. Allora sì, che ne avremmo viste delle belle, tra sberleffi di Battista e anatemi di Scalfari. Quasi che l’incauta compera dell’ex ministro fosse peggiore della svendita (e sospetto storno ai Fini-Tulliani) di un’eredità di An affidata alla custodia fiduciaria di Gianfry. La stampa ha la specialità dei polveroni. Tanto di quelli in cui, battendo la grancassa, l’innocente diventa colpevole; quanto di quelli in cui, messa la sordina, il ladro passa per gentiluomo. Ma sempre, siatene certi, per fini impropri.
Ora in favore di Gianfry gioca senz’altro il suo antiberlusconismo. C’è però un altro elemento tutto interno alla corporazione giornalistica. Lo dimostra la continua accusa di dossieraggio, l’allusione allo zampino dei servizi segreti, l’astio con cui i concorrenti hanno seguito l’inchiesta del nostro quotidiano. Il «giornale di famiglia» secondo la corrente terminologia farlocca. Come se il Corsera non fosse dei banchieri, La Stampa della Fiat, La Repubblica di De Benedetti. Che ci sia qualcosa di sporco e insano nella nostra redazione, è parto della fantasia del finiano Italo Bocchino. Il resto della stampa si è però allineato con tripudio al calunniatore.
Alla base c’è l’invidia per un colpo giornalistico con pochi precedenti e una caratteristica rara: è il primo scoop, da decenni, che non si fonda su carte uscite dai meandri dei tribunali e non deriva dall’input delle toghe. Un’indagine sul campo e non materiale rimasticato sulle scartoffie giudiziarie.

Ecco allora che, rosi dalla gelosia, i giornali che devono le loro passate fortune agli ammanicamenti con le procure si sono uniti nell’imbrattare il nostro lavoro. Col sottinteso che qualsiasi inchiesta non patrocinata sottobanco dai magistrati sia sospetta e deviata. Un teorema cretino e micidiale che, a dargli retta, è un cappio sulla libera stampa. Basta non dargliela.

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