Controcultura

Il libero mercato per vincere i "caudillos" sudamericani

Da un giovanile semimarxismo alla cultura aperta e all'economia di mercato, riducendo il collettivismo all'individuo: autobiografia intellettuale di un romanziere da Nobel.

Il libero mercato per vincere i "caudillos" sudamericani

Da un giovanile semimarxismo alla cultura aperta e all'economia di mercato, riducendo il collettivismo all'individuo: autobiografia intellettuale di un romanziere da Nobel.

Prima ci fu l'infatuazione per Fidel Castro e l'iscrizione al Partito comunista peruviano, nel '53, al primo anno di Università («Eravamo pochi ma assolutamente settari, molto dogmatici, completamente stalinisti»), poi la scoperta dell'Europa e le letture economiche e filosofiche, da Adam Smith a von Hayek, quindi la delusione per la propaganda e le violenze cubane, fino all'approdo liberale e liberista. Mai più caudillos in Sudamerica (e speriamo neppure i loro supporter qui da noi). Da Sartre a Berlin, dal foco guerrillero alle dottrine di Hernando de Soto, fino alla deregulation di Margaret Thatcher. Percorso insolito, per uno scrittore della Cordigliera.

È quello di Mario Vargas Llosa, uomo dal carattere non facile e capace di cambiare idea e visione del mondo, il quale ha riempito la sua vita di scrittura, che gli ha regalato il Nobel, nel 2010, e di politica, che lo ha portato a candidarsi presidente della coalizione di centro-destra alle elezioni del 1990 in Perù, sconfitto da Alberto Fujimori. Il quale poi, nemesi elettorale, attuò un colpo di Stato.

Alla fine, è più facile che i sopracciò dei salotti comodi perdonino a Vargas Llosa l'amore per la carne e la corrida, piuttosto che l'approdo al liberalismo contro l'economicismo socialista. Don Mario, don Mario... te la sei cercata.

Ed eccole qui le prove del guevarismo tradito, della scelta pro mercato e il j'accuse contro tutti i dittatori e lìderissimi (di destra e di sinistra, da Perón a Hugo Chávez): sono gli scritti politici di Mario Vargas Llosa - «lettere aperte» ai vari generali golpisti, articoli, conferenze... - tradotti per la prima volta in Italia e raccolti sotto il titolo Sciabole e Utopie. Visioni dell'America Latina (Liberilibri, pagg. 302, euro 20; traduzione di Conzuelo Fogante e Alessandra Battistelli) con una solida introduzione di Alberto Mingardi.

In parte riflessioni filosofiche, in parte analisi sociali, in parte excursus storici sulle più recenti vicende sudamericane, i testi - risalenti al periodo compreso fra gli anni Settanta e la metà degli anni Duemila, quando Vargas Llosa aveva già abbandonato il suo Perù per la Spagna - compongono una sorta di romanzo politico in forma di pamphlet in difesa della democrazia e del liberalismo.

Scrittore che conosce bene i centri del potere culturale, tra università e giornali, Vargas Llosa manda gambe all'aria gli intellettuali, sudamericani ed europei, campioni d'equilibrismo morale, quelli per i quali l'indignazione unilaterale esplode quando abusi, violenze e censure sono commessi da una determinata parte (il capitalismo, gli Stati Uniti, l'economia di mercato...) e svanisce, o si converte in benevolenza, quando gli stessi arbitrii avvengono nel nome del socialismo (come Günter Grass, che ventilava la «soluzione cubana» anche per il nostro continente, giustificando i crimini di Castro come mezzi politici...).

Uomo che ha vissuto sulla propria pelle le follie del verbo rivoluzionario marxista, Vargas Llosa smaschera le tragiche utopie del socialismo in salsa latinoamericana: lavoro forzato, soppressione delle libertà personali, povertà generalizzata (tranne una piccola classe di privilegiati burocrati), censure, sfruttamento dei più da parte dei pochi...

Da (sud)americano che ha conosciuto l'Europa, dove vive da tempo, pur riconoscendo limiti e storture, rende giustizia a quei Paesi in cui la democrazia va di pari passo all'economia di mercato, le libertà individuali sono maggiori e il potere molto più controllato, e non alla mercé del primo generale o rivoluzionario.

E da studioso delle teorie economiche, oltre che romanziere, prova a ripulire la cattiva fama del (neo)capitalismo, consigliando agli Stati più fragili e ideologizzati del suo continente alcune ricette liberali: privatizzare le imprese, liberalizzare i prezzi, controllare l'inflazione, introdurre le economie nazionali nei mercati internazionali. Chi l'ha detto che la globalizzazione è il male?

E tutto ciò - oltre che con la prosa del grande narratore - sostenuto senza irrigidimenti, senza fanatismi, senza utopie di segno uguale e contrario al comunismo marxista.

Tra le gemme del libro si segnalano: una elegante intemerata contro chi, in Europa, ancora nel 2004, sosteneva che il modo migliore per ottenere «concessioni» da Castro fosse il dialogo e la dimostrazione di amicizia verso la sua tirannia (Le puttane tristi di Fidel). Il garbo con cui smonta l'inutile antiamericanismo di tanta Sinistra. E la sua granitica professione di fede liberale: «Il liberalismo - scrive in una conferenza del 2005 all'American Enterprise Institute for Public Policy Research di Washington - non è un'ideologia, vale a dire una religione laica e dogmatica, bensì una dottrina aperta che evolve e si piega alla realtà, anziché provare a forzare la realtà affinché questa si pieghi ad essa». Democrazia politica, economia di mercato e difesa dell'individuo di fronte allo Stato: è la trinità liberale. «I fondamenti della libertà sono la proprietà privata e lo Stato di diritto, il sistema che garantisce le minori forme di ingiustizia, che maggiormente produce progresso materiale e culturale, che meglio argina la violenza e che più rispetta i diritti umani. Per tale concezione del liberalismo, la libertà è una sola e la libertà politica e la libertà economica sono inseparabili come il diritto e il rovescio di una medaglia».

Una verità degna di un Nobel.

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