Senza gli Stati Uniti in prima linea, la crisi libica rischia di non risolversi: il dibattito impazza negli Usa, con il presidente Barack Obama accusato, anche da alcuni recenti sondaggi, di avere preso sulla Libia una pericolosa decisione a metà strada tra la guerra e la diplomazia, senza in realtà decidere. Lultimo ad essere sceso decisamente in campo è il suo ex avversario alle presidenziali John McCain, giunto ieri a sorpresa a Bengasi per appoggiare i ribelli.
È vero che gli Usa fanno parte della coalizione Nato, come è anche vero che hanno deciso di versare 25 milioni di aiuti ai ribelli (ma non per le armi) e di entrare in azioni con i droni, gli aerei telecomandati muniti di mitragliatrici. Ma le forze leali a Muammar Gheddafi resistono e guidano loffensiva in città strategiche come Misurata e il rais, anche se isolato, potrebbe rimanere al potere ancora a lungo. I repubblicani americani più «falchi», come lex ambasciatore allOnu John Bolton, temono che la Libia si trasformi in un pantano alla irachena o addirittura in un nuovo Vietnam. Tra i «liberal» un columnist come Glenn Greenwald parla de «i droni del Nobel della pace», ricordando che hanno provocato vittime innocenti in Pakistan e che lo stesso potrebbe succedere ora in Libia. Un editorialista spesso controcorrente come il commentatore (inglese) del New York Times Roger Cohen suggerisce addirittura che Obama non abbia capito che la democratizzazione del mondo arabo è la principale sfida di questo inizio di XXI secolo, mentre il francese Nicolas Sarkozy ha preso la palla al balzo. E Cohen conclude: «Obama dovrebbe guardare a Sarkzoy, non alla Markel».
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