Heba Jeaash è una bella ragazza mora di ventiquattro anni. Laureata, lavora come impiegata. Vive a Milano con mamma, papà e fratelli ma ha lasciato a Tripoli laltra metà della famiglia: nonni, zii, cugini. È una delle giovani donne che manifestano davanti alla prefettura di Milano: solidarietà a Mahmoud Jibril e al governo di transizione libico. «Mi aspetto un bel futuro per la Libia, diventerà uno Stato democratico» dice la giovane, battagliera Heba, che sfoggia un cerchietto in vetro Swarovsky sul velo bianco che le incornicia il viso.
«Siamo qui per festeggiare la caduta di Tripoli. Cari rivoluzionari della capitale, ora vi preghiamo di catturare Gheddafi» dice. Fa da portavoce a un nutrito gruppetto che approva. Raccontano di aver organizzato party nelle case, sfoggiano cartelli «Gheddafi game over» o più pesanti «Gheddafi non hai manco una fogna per nasconderti».
Eppure, nonostante lastio, le giovani libiche non apprezzano la taglia «vivo o morto», il wanted sulla testa del dittatore. «Sono daccordo con la taglia, perché è un momento difficile e la somma può allettare le sue body guards - spiega Heba mentre le altre annuiscono - ma non sono daccordo sulla taglia vivo o morto. Gheddafi deve essere preso vivo e processato».
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