L'identità è una ferita che non si rimargina per chi ha lasciato casa

L'identità è una ferita che non si rimargina per chi ha lasciato casa
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Ci sono libri che non si leggono: si subiscono. Nowhere Man di Aleksandar Hemon (riedito da Crocetti, traduzione di Angela Taranto) è uno di questi. Un romanzo che non racconta una storia, ma un crollo. Quello dell'io, della lingua, della memoria. Come se Kafka avesse preso un volo per Chicago e avesse trovato l'esilio invece che l'America. Jozef Pronek, il protagonista, arriva da Sarajevo e si ritrova sospeso tra l'essere e il non appartenere.

È un uomo che attraversa il mondo senza lasciare impronte, un nowhere man nel senso più feroce: un uomo di nessun luogo perché tutti i luoghi gli sono stati strappati.

Hemon lo racconta con una prosa tagliente e scarnificata, fatta di ironie improvvise, di malinconie che esplodono come mine emotive. Ogni frase è un frammento di memoria che non si ricompone, un pezzo di specchio che riflette un volto diverso.

Il linguaggio di Hemon è un campo minato. Scivola tra l'inglese e l'eco del bosniaco, tra la precisione della cronaca e la vertigine della poesia. È come se la lingua stessa fosse un esilio: non un mezzo per dire, ma un luogo dove perdersi. Qui si avverte la lezione più profonda del romanzo: non esiste "casa" per chi ha visto il mondo dissolversi.

Lo sguardo letterario di Hemon è quello di chi ha imparato che l'identità è una ferita che non si rimargina. Pronek cerca sé stesso nei gesti minimi: il suono di una band che prova un pezzo dei Beatles, il profumo di un appartamento americano, la voce di un amico che non riconosce più. Ogni dettaglio diventa un frammento di realtà che si sbriciola tra le dita.

In questo romanzo non c'è redenzione, ma resistenza.

Nowhere Man non vuole piacere: vuole inquietare. È un libro che smonta la retorica del migrante eroico e ci restituisce la verità più semplice e dolorosa quella di un uomo che non riesce più a nominarsi.

Lo stile di Hemon è un pugno elegante: colpisce senza far rumore, ma lascia lividi nella coscienza. È letteratura che non consola, ma costringe a guardare: dove lo sguardo diventa carne e parola, dove l'intelligenza si sporca di vita. Alla fine, Jozef Pronek non trova sé stesso e nemmeno noi lo troviamo.

Ma forse è proprio questo il punto. Nowhere Man è il romanzo di chi non si trova più, di chi resta sospeso tra due lingue, due vite, due silenzi.

È un libro necessario in un tempo che ha dimenticato cosa significa perdersi davvero.

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