Lifschitz, mito ellenico e folklore magiaro

Il pianista ucraino torna nella sala che lo ha visto ai suoi esordi: in programma musiche di Haydn, Ravel, Béla Bartók e Musorgskij

Piera Anna Franini

Kostya, come ama farsi chiamare, ha speso bene i suoi trent’anni anni (il prossimo 10 dicembre). È nato a Kharkov, nel nordest dell’Ucraina, ma di fatto è moscovita, attratto nella capitale russa dalla bottega musicale più esclusiva e severa dell’est: la Scuola Speciale Gnessin dove studiò nella classe di Tatiana Zelikman.
Provvidenziali, poi, i vari premi e riconoscimenti, ma ancor prima il lancio procurato da Vladimir Spivakov che portò il promettente pianista in giro per il mondo. Spivakov non è il solo mentore di questo ragazzo, tenuto in gran conto e assecondato da Temirkanov, Maisky e Kremer, cioè dal meglio che la Russia offra. Spicca, poi, un padrino d’eccellenza quale il violoncellista Rostropovich che gli procurò il lancio negli Usa con un concerto lampo in sostituzione di Martha Argerich in abbinata alla New York Philharmonic Orchestra.
Il pianista Konstantin Lifschitz ritorna a Milano stasera in Conservatorio, in una sala che l’ha visto germogliare, ospite di un’istituzione - la Società dei Concerti - che certo ha contribuito, almeno inizialmente, quando ancora il suo nome suonava piuttosto anonimo, al lancio italiano. Debuttava, dopotutto, a un passo da quel lago di Como dove soggiornò fra il 1997 e il 2000 e ammette: «Quando suono cerco di trasmettere all’ascoltatore la percezione della natura con i suoi colli, vigneti, campi e mari. Ho acquisito il senso di una grande ampiezza proprio sul lago di Como».
Con il recital di stasera Lifschitz affronta il mito ellenico riletto con francese disincanto da Ravel autore della suite Daphnis et Chloé, segue la Suite op.14 di Béla Bartók intento a rielaborare il folklore ungherese. Omaggio al russo Musorgskij (Quadri di un’esposizione) e, in apertura di serata, a Haydn.
Il programma oscilla dunque fra Novecento e l’Ottocento (che però guarda già oltre) di Musorgskij, più una piccola incursione nel classicismo di Haydn. In realtà Lifschitz rimane un cultore dell’antico, ama riandare all’alba del pianoforte addirittura ripescando testi creati prima che il pianoforte venisse alla luce.
Nel suo repertorio campeggiano infatti, autori come Byrd, Anerio, Frescobaldi, Couperin e Rameau, autore quest’ultimo che segnò la prima performance pubblica di un Lifschitz di soli quattro anni. Dal giorno in cui eseguì Tambourin di Rameau «ho iniziato ad amare la musica francese antica», confessa. Bach, poi, si ritaglia un posto tutto suo.
Lifschitz già a diciassette anni, da pianista maturo, catalizzava l’interesse della Casa discografica Denon decisa a pubblicare le Variazioni Goldberg di Bach.

Interpretazione che gli guadagnò un Grammy Award strappando giudizi entusiastici anche al New York Times pronto a parlare di un nuovo Gould. Libertà e una fantasia che opera a briglie sciolte risultano, infatti, alcuni dei segni che contraddistinguono il suo pianismo.

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