Latteggiamento del Partito democratico sul voto per larresto del suo senatore Alberto Tedesco per presunti reati di corruzione legati alla sanità pugliese non è solo ipocrita, è pazzesco. Non eleggi un tuo dirigente senatore tre anni fa per sottrarlo alle indagini giudiziarie, per poi dire (frase pronunciata laltro giorno da Anna Finocchiaro) che «come sempre» ti rimetti alla magistratura. O meglio se fai una scelta simile, laccompagni con le dimissioni da incarichi di responsabilità di tutti i dalemiani (cioè la stessa Finocchiaro, il segretario Pier Luigi Bersani, nonché il leader in persona presidente del Copasir) che imposero lelezione del senatore.
In realtà i dalemiani al comando del Pd si sono infilati in una situazione in cui possono passare solo o per imbecilli incapaci di valutare la gravità delle contraddizioni dei propri comportamenti o per imbroglioni che sperano nella cecità dellopinione pubblica. Nel 1992 e nel 1993 Massimo DAlema fece gestire le posizioni giustizialiste del Pci-Pds dal «segretario» Achille Occhetto, pur avendo il regista delle operazioni in corso, Luciano Violante, che rispondeva a lui stesso. Insomma il futuro segretario del Pds (nonché poi presidente del Consiglio) riuscì a mantenere un minimo di distacco e a continuare a fare politica.
E così nel 1994 bordeggiando ma non invischiandosi nei complotti giudiziari per far saltare Silvio Berlusconi. Poi cercò addirittura con la Bicamerale di pacificare la società italiana superando alcune basi delluso politico della giustizia, ritirandosi poi a causa delle proprie fragilità, in parte anche psicologiche. Negli anni successivi DAlema e i suoi mantennero, accanto a un «naturale» ma non semplicissimo rapporto con i giustizialisti e le procure militanti preziosi nella destabilizzazione del centrodestra, un proprio profilo politico autonomo.
Oggi non è più così. In Italia e nel mondo ne succedono di tutte: litighiamo con i francesi, i tedeschi fanno i bottegai, lUnione europea è in ritirata, la Fiat cerca di darsi una prospettiva industriale e persino i duri della Fiom si rompono su questo, si deve salvare Parmalat, viene dimesso Cesare Geronzi dalle Generali, siamo invasi a Lampedusa e così via. Insomma, tempi burrascosi. E non cè una sola iniziativa politica, una mossa di una minima qualità «strategica» da parte dei dalemiani che, rivolgendosi alla maggioranza in Parlamento (la via maestra per fare politica in una democrazia), parli alla società.
La via imboccata dei dirigenti dalemiani del Pd è solo quella del totale (seppur smarrito) sostegno agli oltranzisti della procura di Milano (che peraltro inizia a mostrare qualche divisione di fronte alle arroganze interne) accodandosi ai neosquadristi-giustizialisti di Antonio Di Pietro e Gustavo Zagrebelsky, giurista di vasti studi, forcaiolo ossessionato da quando non lo elessero presidente della Compagnia San Paolo di Torino.
Nelle mosse dei dalemiani si legge la disperazione, il giocare tutte le carte sul far saltare il banco per costruire unalleanza, imposta dallemergenza, con Pier Ferdinando Casini. E insieme la necessità di tenere a tutti costi rapporti con lampia anima tagliagole interna per evitare che un Nichi Vendola possa vincere le primarie da candidato del centrosinistra a Palazzo Chigi. Queste appaiono le misere giustificazioni comprensibili.
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