L'informazione schiava delle ideologie

Le parole devono avere un senso e, oltre che riduttivo, sarebbe sbagliato definire «impropri» i provvedimenti di sospensione dall’attività per due mesi comminati dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia e della Sicilia al direttore di Videonews, Claudio Brachino, e alla giornalista di Mattino 5, Annalisa Spinoso

di Paolo Corsini*

Le parole devono avere un senso e, oltre che riduttivo, sarebbe sbagliato definire «impropri» i provvedimenti di sospensione dall’attività per due mesi comminati dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia e della Sicilia al direttore di Videonews, Claudio Brachino, e alla giornalista di Mattino 5, Annalisa Spinoso. La sanzione che si è abbattuta sui due colleghi per il noto servizio sul giudice civile del Tribunale di Milano, Raimondo Mesiano, mandato in onda all’interno di Mattino 5 (15 ottobre 2009). Quei provvedimenti sono stucchevoli per il doppiopesismo che li anima. La delibera ai danni dei due colleghi è ancor più inaccettabile alla luce dell’apprezzabile atto di umiltà professionale (raro in una categoria in cui abbondano i soloni) del direttore Brachino il quale, dopo la messa in onda, si è subito interrogato su natura e opportunità del servizio. È inutile elencare le ragioni che costituiscono il doppiopesismo rispetto alla linea di «inflessibile rigore» adottata dai due ordini regionali. Basti ricordare quanti colleghi hanno costruito fortune sulla demolizione non argomentata o apertamente calunniosa, di chiunque non ne condivida l’approccio politico-culturale. O (peggio?) abbiano sciattamente mandato in onda immagini a dir poco censurabili. I siti pedofili sul Tg1 mandati in onda da un collega ora eurodeputato Pd, lor signori li hanno dimenticati?
Figlio della stessa devianza ideologico-culturale è il provvedimento adottato nei confronti del collega del Giornale, Vittorio Macioce, convocato dall’Ordine dei giornalisti dopo un esposto del ministero delle Pari Opportunità e accusato di «razzismo» a causa di due articoli con palesi finalità opposte. Un sintomo dell’egemonia del linguaggio «politicamente corretto» che si vorrebbe imporre burocraticamente mediante l’individuazione e ostracizzazione delle parole ritenute «proibite», quale quella («negri») usata da Macioce e, prima di lui, da molti, tra cui i leader dei Movimenti di emancipazione delle persone di colore. Tra l’altro sulla «moda americana del politicamente corretto secondo cui si dovrebbe dire nero, perché negro sembra sia offensivo e nero no», si era già espresso un maestro di giornalismo quale fu Giano Accame. Come se non bastasse, estrapolare così un termine dalla totalità dell’articolo è ridicolo, e sindacare le modalità espressive dei giornalisti significa lederne libertà e autonomia professionale.
Come abbiamo ricordato in occasione del convegno organizzato a Roma giovedì scorso dall’associazione Lettera22 su informazione e politica, le barriere ideologiche nell’orizzonte politico-culturale italiano sono ancora tantissime e di difficile superamento. Ne è un lampante esempio la polemica che ha coinvolto il direttore del Tg1.
Augusto Minzolini è stato intercettato dalla procura di Trani perché reo di aver rivelato a terzi il contenuto di una sua audizione davanti alla stessa in qualità di persona informata dei fatti per un’inchiesta in corso su carte di credito e tassi usurari nella quale lui non era indagato. Ma che hanno fatto i sindacati Federazione nazionale della stampa e Usigrai? Si sono affrettati a censurare Minzolini e a chiederne le dimissioni in quanto - a loro dire - il direttore del Tg1 avrebbe preso direttive esplicite dal premier su scelte editoriali su alcuni argomenti cari a Berlusconi.
È avvilente che ancora una volta si usi uno strumento di indagine come arma impropria di lotta politica, in aperta violazione del diritto costituzionalmente tutelato della comunicazione privata tra cittadini (cfr art. 15 della Carta costituzionale). Ormai non passa giorno che sui giornali non compaiano conversazioni telefoniche - spesso private - vendute come «scoop». Testimonianza più che attendibile di un giornalismo ridotto a barbarie. Vero o falso, non importa. Tanto meno a Ordine, Federazione della stampa o, nel caso di diffamazione, procure e tribunali. Eppure una profonda riflessione su questo mestiere sarebbe più che mai auspicabile. Oggi il giornalismo, parafrasando Von Clausewitz, è ridotto a mera «prosecuzione della politica con altri mezzi». La deontologia è termine abusato nei convegni e nei seminari, ma la pratica è altro. Oggi l’Ordine interviene, a senso unico. E non si interroga su una professione che sta andando a rotoli, sul perché le vendite dei giornali siano crollate, su come persone che non c’entrano nulla vengano sputtanate quotidianamente da intercettazioni irrilevanti. Quando poi, su quest’ultimo tema, il governo farà un decreto legge restrittivo per tutelare la privacy, potete scommetterci, Ordine e Fnsi a braccetto - guarda caso - coi magistrati di Md grideranno all’attentato contro la libertà.
Il vero problema poi, nel caso di Minzolini, è che alcuni editoriali fatti dalla tribuna del Tg1 hanno dato fastidio. Ma il diritto di un direttore a esprimere la linea editoriale è garantito dal contratto di lavoro e ancor di più il diritto di parola è garantito dall’articolo 21 della Costituzione.

Ma, a volte, ci si ispira a sproposito alla Carta e poi si assumono comportamenti da censori. Nel ventennale della Caduta del Muro, c’è chi vuole ancora mantenere in piedi muri ideologici.
*Presidente di Lettera22

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